Lo ha detto Olaf Scholz, ma non tutti i membri dell’Unione Europea sembrano (o vogliono) rendersene conto. Paesi “orientali” come i Baltici, Polonia, Ungheria e non solo oggi chiedono più voce in capitolo, soprattutto in materia di sicurezza comune.
In Europa le cose stanno cambiando, specialmente dall’invasione russa dell’Ucraina del febbraio scorso. Bisogna prenderne atto: l’Europa non è più quella cara ai suoi Stati fondatori. Oggi l’Unione è più vasta, più inclusiva e meno omogenea di un tempo. Per i governi occidentali (la posizione della Francia è la più emblematica in merito) si tratta di una presa di coscienza per nulla scontata.
Un po’ stupisce che a dirlo a voce alta sia proprio la Germania. Il cancelliere tedesco ha tenuto un discorso all’Università Carolina di Praga lo scorso 29 agosto, in cui l’idea futura di Europa alla tedesca si declina in una proiezione decisamente più attuale, che ridimensiona l’immagine e la narrazione “tradizionali” che siamo abituati ad ascoltare da Berlino. Secondo Scholz, bisogna prendere atto delle evoluzioni in politica estera a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, specie dall’invasione dell’Ucraina. “Non c’è bisogno di dirlo: il centro dell’Europa si sta spostando verso Est”, ha dichiarato il cancelliere. Il cambiamento è reso più visibile dall’urgenza di tracciare una “linea di demarcazione tra questa Europa libera e un’autocrazia imperialista. È adesso che le decisioni devono essere prese”, ha concluso Scholz.
Un necessario cambiamento di prospettiva
Ormai l’Unione Europea non è più il terreno esclusivo di pochi Stati. Se oggi vi aderiscono (o hanno presentato domanda di adesione) anche quasi tutti i Paesi dell’Europa orientale, è perché membri vecchi e nuovi hanno dimostrato di possedere interessi ed obiettivi comuni. Il baricentro politico ed economico dell’Unione è però rimasto sbilanciato verso Ovest, in corrispondenza degli Stati che vantano una maggiore anzianità, ma le cose stanno rapidamente cambiando. Ormai acclimatatisi in seno all’organizzazione, i Paesi della fascia orientale si sono sbarazzati dello stigma di ultimi arrivati e hanno progressivamente preso l’iniziativa. L’Europa, dal canto suo, ha scoperto che quel blocco che si percepiva come “unico” ed omogeneo, lo è molto meno di quanto sembrasse.
L’Europa occidentale ha storicamente provato poco interesse per le differenze peculiari della parte orientale del continente. In parte, perché sussistono due diverse esperienze della “Storia”, soprattutto nella fase moderna, ovvero quella in cui sono nate le istituzioni europee e non solo. Paesi come i Baltici, la Bielorussia, l’Ucraina, nell’immaginario occidentale hanno stazionato sotto il grande ombrello del blocco sovietico ben oltre la data di scadenza di quest’ultimo. Altri Stati, come la Polonia, la Repubblica Ceca, o l’Ungheria, pur non essendo stati parte dell’URSS hanno subito la stessa sorte, perché situati dall’altra parte della cortina di ferro. Ma nel frattempo, al pari dell’Europa occidentale, anche in quel lato di continente avevano luogo enormi trasformazioni, cambiavano la cultura, la politica, l’economia, spesso e volentieri a tempi record o bruciando le tappe.
Oggi i Paesi orientali si fanno decisamente sentire, addirittura ascoltare. La loro posizione limitrofa, spesso direttamente confinante, con la Russia, ha imposto loro di avere voce in capitolo negli affari di primo piano dell’Unione Europea. L’UE, a sua volta, ha capito che la situazione dei suoi membri orientali era più frastagliata e disomogenea del previsto.
Un esempio: Il caso baltico
I Paesi Baltici sono un esempio alla luce del sole. Nel 1991, conquistata l’indipendenza con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, le tre Repubbliche passarono quasi inosservate, piccole e poco popolose, situate ai margini della vecchia, gigantesca URSS. Eppure, nel giro di trent’anni hanno superato anche le migliori aspettative, guadagnandosi il titolo di “Tigri del Baltico”. L’economia, da cantiere di Stati neo-indipendenti, sprovvisti di risorse che li rendessero autosufficienti, e privi dei principali asset ed infrastrutture autonomi di un Paese libero (che sotto Mosca erano controllati e gestiti dal governo centrale, e quindi lontano dalla periferia baltica), si è trasformata in un esempio di vitalità e prosperità, con tassi di crescita quasi sempre in doppia cifra. E non è un caso che oggi Estonia, Lettonia e Lituania siano tra i Paesi più avanzati d’Europa anche dal punto di vista della crescita digitale e dell’avanguardia tecnologica. La cronologia parla da sé: indipendenti e sovrani solo dal 1991, i tre Baltici fanno parte dell’Unione Europea (e della NATO) dal 2004. È un risultato da record, considerato il contesto storico.
Lo stesso contesto storico, e cioè il passato di Repubbliche Socialiste Sovietiche, ha lasciato un’eco difficile da scacciare anche per quanto riguarda la politica estera. Diversamente dai membri più anziani dell’UE, Stati come i Baltici sono direttamente confinanti con la Russia, che costituisce una perenne fonte di allarmismo, oltre che il primo tema in agenda nei contesti diplomatici internazionali. In tempi di pace, i moniti lanciati dai Paesi Baltici non balzavano ai primi posti delle priorità dell’Unione, proprio come lo scorso febbraio, quando ben pochi erano convinti che la Russia avrebbe effettivamente invaso l’Ucraina. Sul Baltico (e non solo) la pensavano diversamente, e hanno avuto ragione. Da periferia orientale dell’UE e della NATO, Estonia, Lettonia e Lituania si sono ritrovate in prima fila, ultimi bastioni di Bruxelles e Washington protetti (o i primi tra gli esposti) dall’articolo 5 del patto Atlantico.
I Baltici, come la Polonia e la stessa Ucraina, fanno parte di quella fascia di Paesi che dividono l’Europa da Nord a Sud che un tempo si trovavano “ad Est”, mentre oggi hanno scelto di andare verso Ovest. Secondo diversi esperti di geopolitica internazionale, l’UE e la NATO avrebbero dovuto impedirne l’ingresso nelle rispettive organizzazioni, per lasciare inalterata quella fascia “cuscinetto” tra Europa occidentale e Russia, evitando così che i due blocchi arrivassero a confinare direttamente. Invece, le cose non sono andate così. Per tornare a Scholz, il cancelliere non è di questo parere: “vorrei aggiungere chiaramente che il fatto che la EU continui a crescere verso Est è un vantaggio per tutti”, ha dichiarato sempre nel suo discorso a Praga. “L’allargamento dell’Unione Europea dovrà includere i Paesi dei Balcani occidentali, l’Ucraina, la Moldavia e poi anche la Georgia. Le regole europee possono essere cambiate in fretta, se occorre. Anche i trattati non sono incastonati nella pietra”.
Un “Est” dalle molte sfaccettature
Estonia, Lettonia e Lituania non sono le sole ad avere ottenuto più spazio sulla scena. Gli esempi sono numerosi: il gruppo di Visegrad, per esempio, costituisce un’alleanza tra quattro Paesi molto attivi: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, proprio al centro dell’Unione. E non sempre il quartetto si è trovato allineato alla corrente dominante europea. Il candidato ceco Babis, per esempio, già Primo Ministro del Paese dal 2017 al 2021 (peraltro Paese tradizionalmente in linea con Bruxelles) ha dichiarato che in caso fosse necessario il ricorso all’articolo 5 della NATO, non intenderebbe inviare truppe a sostegno delle forze europee. Viktor Orban, attuale premier ungherese, è noto per le sue posizioni autonomiste ed eventualmente filorusse. O ancora il caso della Serbia, Paese che ha intrapreso i negoziati per diventare membro dell’UE nel 2012, e che spera di fare il suo ingresso nell’organizzazione nel 2025, contrario all’indipendenza del Kosovo e che rifiuta l’applicazione di sanzioni alla Russia, con la quale da sempre mantiene un legame privilegiato. Non si può quindi fare di tutto l’Est un fascio.