L’aveva annunciato, e l’ha fatto. Il presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin ha firmato il decreto che facilita il rilascio di passaporti russi ai residenti delle auto-proclamate repubbliche di Lugansk e Doneck – nell’est dell’Ucraina, al confine con la Russia.
Con la firma presidenziale, è ora esecutiva la scelta di velocizzare l’iter burocratico per la concessione della cittadinanza russa agli abitanti del territorio conteso, che fa il paio con il concomitante stabilimento di due centri del Ministero dell’Interno russo nel circondario federale meridionale della Federazione. Le strutture si trovano infatti nella città di Novošachtinsk e nel villaggio di Pokrovskoye, entrambi in quell’oblast’ (russo) di Rostov che dista soltanto poche decine di chilometri dal Donbass (ucraino) – un’area lacerata da una sanguinosa “guerra fredda” che ha già mietuto migliaia di vittime, sia nelle file dei soldati ucraini che in quelle dei separatisti filo-russi (per alcuni, tout court russi). L’amministrazione russa conta di “smaltire” all’incirca 200 richieste al giorno, rendendo così ancora più agevole la “russificazione” burocratica delle persone del posto – che russe, a dire la verità, spesso già si sentono.
Non finisce qui, però. Putin ha inoltre affermato che è allo studio del suo Governo la fattibilità di un provvedimento che estenda le misure agevolatrici all’intero territorio ucraino – giocando sul fattore-nazionalità, che fa di russi etnici e russofoni una componente decisamente importante della demografia ucraina (specialmente nell’est).
Se c’è una cosa che colpisce delle decisioni del Cremlino, questa è certamente la tempistica – il più delle volte perfetta, senza lasciare proprio nulla al caso.
Il decreto “sburocratizzante” è stato firmato da Putin il 24 aprile: 3 giorni dopo il ballottaggio alle elezioni presidenziali ucraine, nelle quali l’ex comico Volodymyr Zelenskyj ha sbaragliato la concorrenza del presidente uscente (nonché magnate del cioccolato) Petro Porošenko. Qualcuno lo definirebbe un “battesimo di fuoco” per il neo-eletto, sebbene a Kiev siano un po’ tutti sul chi va là – specialmente dopo il drammatico sequestro di tre navi della Marina militare ucraina nello Stretto di Kerch lo scorso novembre. Durante la campagna elettorale, a Zelenskyj era stato rimproverato un atteggiamento eccessivamente “diplomatico” nei confronti di Mosca, per alcuni tale da bollarlo addirittura come un filo-russo. Certo, non giocano a suo favore le accuse di aver ricevuto finanziamenti elettorali da alcuni fedelissimi di Putin, su cui i servizi segreti nazionali stanno indagando. Non è quindi da escludere che uno dei tanti effetti collaterali della mossa di Mosca sia appunto quella di minare la fiducia nel nuovo capo di Stato, anche se Zelenskyj ha recentemente affermato che, per lui, l’unica cosa che all’Ucraina è rimasta “in comune” con la Russia è il confine geografico – lungo quasi 2300 km.
Per il momento, il copione non è cambiato. Il Governo ucraino (presieduto da Porošenko fino alla fine di maggio) ha condannato duramente la decisione del Cremlino, accusato di calpestare per l’ennesima volta gli accordi di Minsk e di buttare altra benzina sul fuoco sul conflitto nel Donbass. Stavolta, però, Kiev ha deciso di non fermarsi alla pars destruens, rilanciando in maniera tanto clamorosa – quanto potenzialmente controproducente: Zelenskyj si è infatti impegnato a concedere la cittadinanza ucraina a tutti coloro che, nel mondo, sono costretti a vivere in “regimi autoritari e corrotti, in primis al popolo russo“.
Logicamente, va verificato quanto di concretamente attuabile ci sia nelle parole del neo-presidente. Cosa ci potrebbe essere di (strategicamente) controproducente in una mossa del genere? Quasi tutti gli interventi russi in Ucraina – palesi o velati – nell’ultimo decennio hanno avuto una costante comune: la tutela dei russi etnici come motivo giustificatore. È successo in Crimea, sta succedendo a Doneck e Lugansk. Concedere la cittadinanza russa in maniera indiscriminata a qualsiasi russo potrebbe provocare un mini-esodo di russi etnici in Ucraina – con i rischi che avvocati del diavolo e malpensanti vari hanno facilmente presenti. Vista da questo punto di vista, anche una mossa teoricamente al vetriolo può rivelarsi qualcosa di praticamente futile – se non proprio dannoso.
Se l’Ucraina non può dormire sogni tranquilli ad Est, ciò non significa che anche ad Ovest non abbia delle grane. Sono difatti già diversi anni che il presidente ungherese Viktor Orbán valuta la possibilità di concedere la doppia cittadinanza per gli ungheresi etnici nella regione ucraina occidentale della Transcarpazia – oltre a sostenere le ipotesi autonomiste degli stessi. Una volta assodato, però, che a Kiev non avrebbero transatto sulle richieste di Budapest, è entrato in gioco (anche) il fattore-clandestinità: lo scorso ottobre le autorità ucraine hanno arrestato un rappresentante consolare della Repubblica ungherese, accusato di aver tacitamente concesso la cittadinanza dello Stato membro dell’UE ad alcuni ucraini magiarofoni.
La questione etnica rimane indubbiamente una delle più “calde” in questo momento storico per Kiev: quasi contestualmente al cambio al vertice, la Verchovna Rada ha approvato un disegno di legge (sostenuto da Porošenko) che rende l’ucraino la lingua esclusiva in tutti i luoghi di lavoro del Paese – dai ministeri di Kiev alle boutique di Leopoli.
Insomma, pare proprio che nella guerra tra Ucraina e Russia (ma non solo) si sia aperto un altro fronte oltre a quello (para-)militare, dove a combattere non sono eserciti più o meno regolari, ma i burocrati: il fronte delle cittadinanze.