Il sospetto che un nuovo fronte si apra anche ad Occidente aleggia sul conflitto ucraino sin dal suo inizio. Le recenti decisioni di Putin sembrano mettere ancora più pressione sulla Moldova e sulla de facto indipendente Transnistria, da decenni tese tra Russia ed Europa. Molti aspettano solo la goccia che farà traboccare il vaso. Nuova puntata della rubrica Dietro lo specchio di Fulvio Scaglione
“La fine dell’Urss è stata la più grande tragedia geopolitica del Novecento”. La famosa frase di Vladimir Putin può essere interpretata in due modi. Come fanno i più, vedendoci solo nostalgia per l’Unione Sovietica. O come fanno i meno, accettando il fatto che lo smantellamento dell’Urss non è avvenuto in seguito a un piano o a un progetto organizzato, ma con lacrime e sangue, e che la nascita contemporanea di 15 nuove nazioni indipendenti poteva solo implicare un parto complicato e conseguenze dolorose.
In quel momento, infatti, nacquero anche bambini dalla sorte incerta, con i piedi in un luogo e la testa altrove, frutto avvelenato del divide et impera applicato dall’Urss staliniana. Figli che sembravano fatti apposta per far litigare i parenti. Il Nagorno Karabakh, che ancora adesso tiene Armenia e Azerbaigian in stato di guerra. Le rivalità etniche, religiose e politiche in Tagikistan. Le ricorrenti rivoluzioni in Kirghizistan. La Cecenia. L’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, territorio della Georgia e sentimenti in Russia. Il Donbass, delle cui tragedie parliamo ormai da un decennio. E la Transnistria, che potrebbe diventare la tragedia prossima ventura.
Il timore che la Transnistria, e quindi anche la Moldova di cui è dal 1992 porzione secessionista, siano coinvolte nel conflitto è vivo fin da quando, il 24 febbraio dell’anno scorso, è cominciata l’invasione russa dell’Ucraina. D’altra parte, anche qui vige da decenni un equilibrio che ha dell’incredibile: tre mesi di conflitto nel 1992 con un migliaio di morti, l’intervento della 14° Armata russa, guidata dal generale Aleksandr Lebed’ (poi rivale di Eltsin nelle elezioni presidenziali del 1996, quindi segretario del Consiglio di sicurezza russo e protagonista della prima pace con la Cecenia), in veste di “forza di pace”, un’indipendenza de facto per la Transnistria (con una guarnigione russa di circa 2 mila soldati), l’irrequietezza della Moldova, dipendente al cento per cento dalla Russia per le forniture energetiche ma come quasi tutti i Paesi ex sovietici attratta dalla prospettiva europea e atlantica. Fino alla vittoria nelle presidenziali del 2020 di Maia Sandu, economista laureata a Harvard, sul candidato filorusso Igor Dodon. Non a caso, appena insediata, la Sandu ha chiesto il ritiro delle truppe russe dalla Transnistria e la loro sostituzione con una missione dell’Ocse.
L’invasione russa dell’Ucraina, però, ha fatto saltare tutto. Tiraspol, “capitale” della Transnistria, è a un’ora di automobile sia da Odessa, il prezioso porto ucraino sul Mar Nero, sia da Chisinau, capitale della Moldova. E da Tiraspol al punto più vicino del confine rumeno c’è una settantina di chilometri. Il rude generale Lebed’ diceva che la Transnistria “è la porta dei Balcani”. Oggi, con molta più urgenza, potrebbe diventare il secondo fronte di una guerra che già dura da un anno, ha sconvolto gli assetti politici ed economici del continente europeo e provocato distruzioni e perdite enormi agli ucraini, ma anche ai russi. Pochi giorni fa, Vladimir Putin ha annunciato la revoca del Decreto 605 del 2012, il documento in cui il Cremlino, tratteggiando le linee della politica estera, garantiva alla Moldova indipendenza e integrità territoriale. Un annuncio tanto più preoccupante perché arrivato con altre due decisioni. La prima è la sospensione della partecipazione russa al Trattato Start III (che limita a 1.150 il numero di testate atomiche per Usa e Russia e a 700 i missili balistici lanciabili da terra, aria e mare). La seconda sta nella dichiarazione del ministero degli Esteri, che ha scritto: gli Usa, i Paesi europei “e i loro miliziani ucraini” sappiano che qualunque azione condotta contro la Transnistria, i soldati russi e la base di Kalbasna sarà considerata un attacco alla Russia stessa, che reagirà di conseguenza. Un monito che sinistramente ricorda quel che è successo con l’Ucraina: il riconoscimento delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, la guerra, l’annessione. E se Maia Sandu pensava di trattare con Mosca il futuro della Transnistria…
Rievocare il 2012 del Decreto 65 un po’ di aiuta a capire la natura della crisi odierna. Putin è appena stato rieletto Presidente per la terza volta, dopo i due mandati del 2000-2004 e 2004-2008 e l’interludio da premier del 2008-2012. È più che mai in sella, tanto che la durata del mandato presidenziale viene per la prima volta portata da 4 a 6 anni. Prepara le Olimpiadi invernali di Sochi per il 2014, ha ottenuto l’organizzazione dei mondiali di calcio per il 2018 e può dire di aver guidato il Paese fuori dalla crisi economica del 2008: nel 2012 il Pil russo cresce del 4%, più che in molti Paesi della zona Euro. Eppure l’inverno del 2011 è stato segnato dalle proteste più massicce che la Russia ricordi, tanto che anche il Cremlino sente la necessità di rifare il trucco al Governo, silurando il potente ministro della Difesa Anatolyi Serdyukov, sostituito dal popolarissimo ex ministro per le Situazioni d’Emergenza Sergey Shoigu, e la ministra dell’Agricoltura Elena Skrynnik, accusati di corruzione. C’è una polemica tra Igor Sechin, ex ministro dell’Energia e presidente di Rosneft, e il Governo. Sechin chiede la fusione tra le società che controllano le reti elettriche e quelle che controllano i gasdotti di Rosneftgaz. La cosa, come spesso è capitato nel secondo decennio putiniano, si fa, ma a metà.
Più in generale, i sondaggi Levada e VTsIOM certificano un netto calo dei consensi per il Governo e per lo stesso Putin, che recupererà solo con l’annessione della Crimea nel 2014. E nonostante un crescendo di toni polemici con gli Usa (il “caso Snowden”, per esempio), è chiaro che in quel momento il Cremlino non si sente pronto allo scontro frontale. Siamo ancora nel mood del 2010 quando Putin, alla vigilia dell’incontro con Angela Merkel, aveva immaginato un unico spazio economico “da Lisbona a Vladivostok”. Sogno che aveva per tappa obbligata l’ingresso della Russia nel WTO, chiesto nel 1993 ma realizzato, guarda caso, proprio nell’agosto del 2012. La garanzia offerta alla Moldova, terra di connessione con l’Unione Europea, con il Decreto 65 sta tutta in quell’atmosfera di impotenza e insieme di aspettativa. Mancano dieci anni all’idea di recuperare con le armi alla patria tutti i russi rimasti oltre confine e, con questo, riguadagnare spazio strategico.
Torniamo ai nostri giorni. Il problema della Moldova, Transnistria compresa ovviamente, è chiaro: è il punto ideale per aprire il secondo fronte di una guerra che, al netto degli annunci di offensive prossime venture dell’una o dell’altra parte, sembra bloccata in uno stallo sanguinoso. È un Paese piccolo (2,6 milioni di abitanti), debole, fuori dalla Ue e dalla Nato, ma schiacciato tra l’Ucraina e la Romania avendo, all’interno del proprio territorio, una guarnigione russa. Ucraini e russi hanno lanciato allarmi contrapposti in pratica nello stesso tempo. Da Mosca sono state denunciate provocazioni ucraine e un sospetto concentramento di uomini e mezzi ucraini ai confini della Transnistria. Da Kiev è stato invece annunciato un tentativo di colpo di Stato ispirato da Mosca ai danni della Sandu, che non ha esitato: ha detto di aver ricevuto dai servizi segreti ucraini informazioni convincenti, e ha denunciato infiltrazioni sospette di russi, serbi e bielorussi in occasione di una partita di calcio. Poi ha chiesto un regalo all’Ucraina: parte delle armi ricevute dall’Occidente.
Capire chi stia mentendo, e quindi da che parte arrivi il vero pericolo, è di fatto impossibile. La Russia viene accusata di sviluppare in Moldova le solite tattiche di guerra ibrida, cosa assolutamente possibile. Bisogna però anche ricordare un fatto: nel 2020, Maia Sandu ha vinto le presidenziali grazie soprattutto al voto dei moldavi all’estero, circa 1 milione e mezzo di persone. In patria è stato quasi un testa a testa con Dodon. È normale che ci siano moldavi per ragioni diverse ancora legati alla Russia e disposti a scendere in piazza contro l’attuale Governo, anche se è facile immaginare che Mosca non lesini “consigli” ai dirigenti dei partiti e dei movimenti più ostili all’influenza occidentale. Mai come in questo momento, comunque, la Moldova pare il classico vaso di coccio. Un coinvolgimento nel conflitto tra Russia e Ucraina finirebbe per travolgerla e segnerebbe con ogni probabilità la sua fine di Paese indipendente. Se poi la Nato dovesse intervenire a difenderla, sarebbe la fine di molte altre cose.