Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, la ricostruzione della Siria costerà complessivamente circa 400 miliardi di dollari (il 65% dei quali destinato al settore abitativo). Un’operazione resa complicata da molteplici fattori, tra cui il permanere del conflitto in alcune aree del Paese, la mancanza di manodopera (molti uomini sono morti, fuggiti all’estero o inabili al lavoro), una situazione securitaria lungi dall’essere stabile, nonché gli effetti delle sanzioni occidentali su un’economia siriana già oltremodo sofferente.
Se si guarda ai papabili investitori nella ricostruzione siriana, la Russia occupa un posto di spicco rispetto ad altri attori per ora ai margini. In primis abbiamo l’Unione Europea, la cui posizione ufficiale è di non coinvolgimento con il regime di Bashar al Asad almeno fino alla realizzazione di un processo politico “inclusivo e a guida siriana che vada incontro alle legittime aspirazioni del popolo siriano”, come caldeggiato dalla risoluzione ONU 2254 del 2015. Malgrado posizioni variegate all’interno della vasta famiglia europea (si pensi ad esempio alla Repubblica Ceca, I cui rapporti con il governo siriano non hanno conosciuto alcuna interruzione e la cui ambasciata a Damasco è rimasta aperta durante tutto il conflitto), il permanere di sanzioni e la resistenza del regime stesso di Asad a un intervento europeo significativo – con le condizionalità che esso comporterebbe – rendono una possibilità remota un ruolo forte dell’Unione.
Stesso discorso intrecciato di sanzioni e moventi politici escludono dal tavolo della ricostruzione gli Usa. Sotto la pressione di questi ultimi, anche Paesi come Bahrein, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Arabia Saudita si sono mostrati estremamente reticenti a investire in Siria, malgrado l’intento condiviso con l’alleata Washington di limitare il ruolo dell’Iran nella regione. Un altro pezzo da novanta come la Cina ha adottato un atteggiamento di cautela. Forte di disponibilità finanziaria per investire e di esperienza in scenari post-conflitto come quello sud-sudanese, la Repubblica popolare ha partecipato lo scorso settembre alla Damascus Trade Fair, mentre la Siria ha ricambiato presenziando al secondo forum pechinese dedicato alle nuove vie della Seta l’aprile scorso. Pur se ingolosito dalla posizione siriana lungo la suddetta Belt and Road Initiative, il Paese del Dragone è restio a puntare su uno scenario ancora in divenire.
Alla luce del quadro sin qui tracciato, a contendersi la torta sono soprattutto Russia e Iran. Sia per Mosca che per Teheran, gli investimenti in Siria sono un cospicuo dividendo per il proprio impegno militare. Per il governo di Damasco alla disperata ricerca di risorse, i denari dei due alleati sono più che benvenuti. Differenti le implicazioni politiche: ingaggiare società russe è politicamente meno compromettente che permettere un’ulteriore espansione economica della Repubblica Islamica, anche alla luce di auspicabili investimenti da parte dell’asse sunnita anti-Teheran cui si è accennato sopra.
Oltremodo differente è anche l’impegno economico di russi e iraniani in questi anni: I primi avrebbero speso nel conflitto siriano tra I 2,5 e i 4 miliardi di dollari dal loro intervento nel settembre 2015 a oggi, mentre si stima che I secondi abbiano sborsato tra I 16 e I 48 miliardi a partire dal 2012.
Mentre rischi di carattere securitario e finanziario accomunano I due contendenti, le sanzioni americane costituiscono un handicap notevolissimo per Teheran se confrontata con Mosca. Una tattica elaborata dalla Repubblica Islamica è quella di investire nelle aree più remote e/o meno servite del Paese – ad esempio nel governatorato orientale di Dayr az Zawr – dove gli interessi russi e damasceni sono di gran lunga minori.
Da parte sua, il Cremlino non è interessato alla competizione aperta, né con l’Iran né con altri. Al contrario, l’intento russo è quello di coinvolgere quanto più possibile la comunità internazionale nel business della ricostruzione. E ciò per diverse ragioni. Innanzitutto, per il semplice fatto di non avere sufficienti risorse finanziarie per sobbarcarsi l’intera operazione. In secondo luogo, il coinvolgimento di altri investitori va di pari passo con il riconoscimento da parte di questi della vittoria e dell’autorità di Asad. Ossia del ruolo della Russia di deus ex machina nel ginepraio siriano e nuovo “gendarme” del Medio Oriente, alla luce dell’ondivago disimpegno statunitense nella regione. Una politica che vede Mosca parte attiva nei settori strategici che più le stanno a cuore e freerider in campi ritenuti marginali.
Tra i settori di maggiore interesse, ovviamente quello energetico, in particolare degli idrocarburi. La produzione petrolifera siriana è passata dai 385 mila barili al giorno del 2010 ai circa 70 mila barili del 2018 (anche se quest’ultima stima considera solo le aree sotto il controllo di Damasco, mentre la maggior parte delle riserve si trovano nelle regioni orientali sotto il controllo curdo). Molti gli ostacoli sulla via della ripresa dell’industria petrolifera, tra cui i cospicui danni alle infrastrutture e le sanzioni occidentali. Ciononostante, gli idrocarburi sono potenzialmente una fonte di ritorno rapido degli investimenti e acquisirne il controllo significa esercitare un’influenza fondamentale sul regime di Damasco, che ha nell’oro nero una dei propri maggiori strumenti di finanziamento e al momento sta vivendo una crisi – con relative contestazioni popolari – relativa al rifornimento di carburante nelle aree sotto il proprio controllo. Anche qui Mosca parte da una posizione di vantaggio rispetto a Teheran, avendo investito nel settore già prima del 2011 e beneficiando quindi di una conoscenza pregressa del mercato locale. Tra le aziende attive da almeno un decennio nel Paese mediorientale figura Stroytransgaz, la quale è impegnata nella ricostruzione di un rigassificatore nella zona di Raqqa oltre a essersi aggiudicata contratti per modernizzare le raffinerie di Baniyas e Homs e sviluppare I giacimenti di fosfati presso Palmira. Senza dimenticare che nel 2018 un accordo bilaterale ha dato alle imprese russe il diritto esclusivo di estrarre petrolio e gas dalle aree sotto il controllo di Asad.
Diverso il discorso per l’Iran, fiaccato dalle sanzioni internazionali pur rimanendo il principale fornitore di prodotti petroliferi raffinati verso la Siria e conseguentemente in possesso di un importante potere negoziale (interruzioni delle forniture non sono inedite).
Un’altra fetta di mercato in cui la Russia ha saputo ritagliarsi un proprio spazio privilegiato è quella legata ai prodotti agricoli. In seguito a un tracollo nella produzione di grano siriano (circa il 60% di calo rispetto al 2011), Mosca ne è divenuta il principale fornitore per Damasco. Le importazioni di grano russo sono infatti passate dalle 650 mila tonnellate di prima del 2015 al milione e mezzo del 2017.
Questi sono solamente un paio di esempi dell’impegno russo ad ottenere quanto più possibile dalla miniera d’oro che è la realtà del (quasi) post-conflitto in Siria. Dal contratto per la costruzione di una linea ferroviaria dall’aeroporto di Damasco al centro della capitale fino alla concessione per 49 anni di un centro di supporto logistico per la marina russa nel porto di Tartus, Mosca risulta vincitrice nello scramble for Syria. Finora. L’ingombrante presenza iraniana e la necessità di ricorrere alla pecunia di Paesi come la Cina potrebbero rendere il gigante eurasiatico vassallo di altre potenze sul lungo periodo.