Mosca ha pubblicato il suo Concetto di Politica Estera per il 2023. Il documento è un insieme di avvertimenti non troppo velati all’Occidente, dichiarazioni di fedeltà agli alleati di sempre, e molti accenni filosofici. Indipendentemente dai risvolti concreti che avrà, qualcosa si può già affermare: non c’è nulla di nuovo.
Dalla recente dichiarazione di politica estera russa, resa pubblica il 31 marzo 2023, nessuno esce vincitore. Né l’Occidente, Europa o Stati Uniti, o i suoi alleati sullo scenario internazionale, né la Russia stessa, che riesce nell’arduo compito di svelare le sue debolezze ed i suoi terrori attraverso quella che vorrebbe essere, al contrario, una dimostrazione di forza e fermezza.
Velleità di pace e sicurezza a livello globale e regionale, dichiarate a gran voce in paragrafi altisonanti, vengono sconfessate poche righe dopo da minacce neanche troppo velate e da accuse dense di vittimismo. Emerge al contempo anche un grande punto di forza di Mosca, la capacità di costruire una narrativa secondo la quale la Russia è vittima accerchiata da potenze ostili che ne minacciano l’integrità, non solo geografica e politica, ma prima di tutto morale. In quest’ottica, la sua raison d’etre diventa quella di difendersi dal rischio di tale corruzione, e di far valere l’idea russa del mondo su tutte le possibili alternative.
Un compito che sembra essere rimasto immutato da quando si ha memoria della cultura russa, da sempre permeata da un senso di superiorità morale derivatogli dalla convinzione di essere un popolo (il concetto difficilmente traducibile di narodnost’) prima ancora che una nazione; popolo accomunato dall’ortodossia, dal rispetto incondizionato per l’autorità, da origini pacifiche e non da conquiste bellicose, da un sentimento di comunione che sfocia nella sobornost’, la sinfonia tra gli uomini in cui l’individuo può essere persona solo in relazione al tutto. Se non letto alla luce di questa idea di superiorità e moralità tipicamente russa, il nuovo concetto di politica estera risulta di difficile comprensione.
Seppur comunque ostico e in diverse parti decisamente irrealistico, letto con la lente della storia tale documento non è nient’altro che la riaffermazione di una posizione cristallizzata da secoli nella società e nella politica russa: quella intransigente e patriottica di chi crede che la Russia non sia una nazione, ma un mondo intero. Tale convinzione permea l’intera dichiarazione, influenzando in particolar modo quattro oggetti della considerazione di Mosca: la Russia stessa, il suo popolo, l’Occidente e il sistema internazionale nel suo complesso.
Come la Russia vede sé stessa
Con queste parole, in apertura del documento, Mosca si auto-consacra come “potenza civilizzatrice” nel panorama globale, con il compito, anzi la missione storicamente unica, di plasmare il sistema delle relazioni tra le varie nazioni fino a “garantire lo sviluppo progressivo pacifico dell’umanità sulla base di un’agenda unificante e costruttiva”. Basterebbero queste parole a testimonianza della considerazione che la Russia ha di sé una percezione che stravolge il significato delle sue mosse, inclusa invasione dell’Ucraina, che diventa infatti in tale narrazione nient’altro che uno degli scotti da pagare per giungere alla pacificazione del sistema globale.
La nemesi occidentale
Ma la Russia non riesce a definire sé stessa se non attraverso una contrapposizione, se non affermando il suo contrario, continuamente accennando alla sua nemesi, incarnata, com’è ovvio, dall’alleanza euro-atlantica. Nel documento si ritrovano costanti rimandi ai Paesi occidentali, come se essa non potesse esistere se non ponendosi in alternativa ad un sistema definito corrotto, viziato dal capitalismo e dal decadimento dei valori e della morale Tra gli obiettivi in politica estera campeggia, infatti, quello di “consolidare gli sforzi internazionali per garantire il rispetto e la protezione dei valori spirituali e morali universali e tradizionali (comprese le norme etiche comuni a tutte le religioni del mondo) e contrastare i tentativi di imporre visioni ideologiche pseudo-umaniste o di altro tipo neoliberiste, che portano alla perdita da parte l’umanità dei tradizionali valori spirituali e morali e dell’integrità”.
L’Occidente, secondo Mosca, è macchiato innanzitutto dal suo passato coloniale, che viene continuamente nominato nel corso del documento come se fosse il tratto più caratterizzante di tali Paesi. Sorge il dubbio che l’insistenza con cui vi si fa riferimento sia dovuta alla necessità di giustificare l’invasione di uno Stato sovrano (l’Ucraina) e le velleità di conquista russe mutuate dalla sua storia precedente. Come a suggerire che ciò di cui l’Occidente accusa la Russia è niente in confronto a ciò che lui stesso ha fatto in altre parti di mondo ben prima di lei. Se all’inizio del documento le menzioni all’Occidente sono più vaghe e volutamente ambigue (nelle prime pagine né l’Europa né gli Stati Uniti vengono mai nominati esplicitamente), ad un certo punto gli attacchi entrano nel vivo e lo fanno puntando il dito senza riserve.
Gli Stati Uniti, per quanto venga loro riconosciuto un ruolo centrale nello sviluppo globale, vengono tacciati di “ambizioni egemoniche”, e di essere il maggior ispiratore, organizzatore ed esecutore della politica anti-russa dell’Occidente, la fonte di maggior rischio per la sicurezza della Federazione Russa, e, più in generale, dello sviluppo pacifico e bilanciato dell’intera umanità. Ad un livello ancora più profondo, vengono criticate le basi stesse della nazione americana, l’idea filosofica che parla di “perseguimento della felicità individuale”, la concezione di persona come atomo, agli antipodi rispetto alla teoria russa della società come libera comunione di anime affini.
L’Europa, dal canto suo, commette l’imperdonabile errore di seguire l’esempio americano, perseguendo una politica aggressiva nei confronti della Russia allo scopo di ottenere vantaggi economici unilaterali, minare la stabilità politica interna ed erodere i tradizionali valori spirituali e morali russi, creando così ostacoli alla cooperazione della Russia con alleati e partner.
Ciò che la Russia teme è che il loro scopo, sia attraverso le sanzioni che tramite il supporto a Paesi a lei ostili, sia quello di indebolirla in ogni modo possibile; la vera sorpresa è l’approccio proposto in risposta alla minaccia occidentale, almeno a parole, e cioè l’intenzione di perseguire “una cooperazione pragmatica guidata dai principi di sovranità, uguaglianza e rispetto degli interessi reciproci”. L’auspicio risulta debole, però, quando proseguendo si legge che “in risposta alle azioni ostili dell’Occidente, la Russia intende difendere il proprio diritto all’esistenza e alla libertà di sviluppo utilizzando tutti i mezzi disponibili” e che “in caso di atti ostili da parte di Stati stranieri o delle loro associazioni che minacciano la sovranità e l’integrità territoriale della Federazione Russa, compresi quelli che comportano misure restrittive di natura politica o economica o l’uso delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la Federazione ritiene lecito adottare le misure simmetriche e asimmetriche necessarie per sopprimere tali atti ostili e anche per evitare che si ripetano in futuro”. Il riferimento alla reazione occidentale all’invasione dell’Ucraina è evidente, e la dichiarazione suona come una specie di avvertimento: siamo aperti alla cooperazione e al dialogo, a patto che portino alla conclusione migliore per noi.
Nella visione di Mosca, l’ambizione egemonica americana è arrivata al punto tale da corrompere e stravolgere anche le istituzioni internazionali, che, pur dovendo essere garanti dell’uguaglianza di tutte le nazioni nel panorama globale, parteggiano invece per Washington. A questo proposito, è interessante notare che il Cremlino non rifiuta l’esistenza di tali organismi, a partire dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, anzi ne richiede a gran voce l’intervento. Se Mosca volesse porsi al di sopra – o al di fuori – dell’ordine internazionale, potrebbe semplicemente non riconoscere il compito di queste istituzioni; il documento reclama, al contrario, l’imposizione di regole, standard e norme con un’equa partecipazione di tutti gli stati interessati, e rimpiange “la cultura del dialogo negli affari internazionali” e “l’efficacia della diplomazia come mezzo di risoluzione pacifica delle controversie”, entrambe degradatesi a causa dell’abuso della propria posizione di potenza da parte degli Stati Uniti. Quello di un mondo multipolare è un mantra che Mosca non si stanca di ripetere.
Russkij mir
Chi non è contro di lei, deve necessariamente essere al suo fianco. Oltre alle immancabili Cina e India, con cui ci si augurano ferventi rapporti commerciali e politici, si citano due categorie: da un lato i semplici alleati, gli stati amici contrapposti al blocco degli “unfriendly states” sopra descritto; dall’altro, a un livello più alto, i cosiddetti compatrioti.
Tra gli alleati stranieri viene posta grande enfasi sul Medio Oriente, dove Mosca intrattiene partnership “sfaccettate” con la Repubblica Islamica Iraniana, la Siria, la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Egitto; i compatrioti invece sono i russi che non si trovano in Patria, ma sparsi nel mondo (in particolar modo nelle repubbliche ex sovietiche). È a queste persone, e quindi in alcuni casi ad interi Stati, che si applicano una serie di misure di protezione e promozione della cultura e della mentalità russa, come una sorta di preservazione dell’identità che deve essere assicurata per garantire compattezza al popolo russo, ovunque si trovi.
È la ricostruzione del russkij mir, il mondo russo, anzi la sua consacrazione, visto che per Mosca esso esiste già e necessita solo un riconoscimento. Anche questa, come molte altre idee politiche russe, non si può comprendere senza trasferire il discorso su un piano morale, quello dell’unità spirituale di una comunità indissolubilmente legata da una missione, guidare l’umanità.
Ciò può avvenire grazie a una serie di misure di rafforzamento dei legami con questi espatriati, arrivando fino ad “assistere il reinsediamento volontario nella Federazione Russa dei connazionali che hanno un atteggiamento costruttivo nei confronti della Russia, in particolare di coloro che subiscono discriminazioni nei loro Stati di residenza.” All’occhio attento di un osservatore esterno, questo è uno dei paragrafi dove, pur senza farne accenno diretto, si parla dell’Ucraina, delle deportazioni forzate e dell’occupazione dei territori del Donbass. La giustificazione è sempre il legame di queste persone e territori con la Russia, legame derivante da “tradizioni secolari di statualità comune, da una profonda interdipendenza in vari campi, da una lingua comune e da culture vicine”. L’obiettivo rimane “garantire relazioni di buon vicinato sostenibili e a lungo termine e combinare i punti di forza in vari campi con gli Stati membri della CSI”. Non si parla infatti solo dell’Ucraina, ma di tutto il cosiddetto “estero vicino”, “una zona grigia dove la Russia ritiene di avere interessi legittimi riguardo a tutto, dalle questioni di sicurezza alla protezione delle minoranze russofone” (B. Jangfeldt, L’idea russa, 2022). C’è il rimando all’Eurasia, quella parte di mondo in cui i due continenti si intrecciano e che di cui Mosca vorrebbe essere baluardo, riallacciandosi a teorie geopolitiche in voga dall’Ottocento e poi riprese da uno dei principali pensatori dell’epoca putiniana, Aleksandr Dugin. C’è anche la menzione esplicita di due Repubbliche, Abkhazia e Ossezia del Sud, le cui popolazioni sarebbero a favore di una maggiore integrazione con la Russia.
Senza scendere ulteriormente nei dettagli del Concetto di Politica Estera, dall’analisi di queste tre relazioni (quella della Russia con sé stessa, con l’Occidente, e con “l’estero vicino”) può già emergere un giudizio sul documento in oggetto: non vi è nulla di nuovo nella visione che la Russia ha del mondo, né di sé stessa. I timori di accerchiamento e di relegazione alla periferia del sistema globale, la grandiosità attribuita al popolo russo e ai suoi governanti, persino il ruolo attribuito ai Paesi dell’Europa orientale, tutto è stato mutuato da una tradizione che è sopravvissuta all’impero zarista, all’Unione Sovietica e al ventennio putiniano. A provarlo, le linee programmatiche di politica estera pubblicate dal Cremlino già nel 2002, recanti una dura condanna della “tendenza a creare un mondo unipolare sotto l’egemonia economica e militare degli Stati Uniti”. Una percezione che, per quanto non totalmente falsa, sembra essersi cristallizzata nel tempo e non aver subito mutamenti né evoluzioni, tanto da ritrovarla praticamente identica più di venti anni dopo.