L’Asia Centrale è una regione euroasiatica di grande estensione, schiacciata tra il Medio Oriente, la Federazione Russa, il subcontinente indiano e la Cina. Composta da cinque repubbliche (i cosiddetti -stan, dal persiano “terra di”) Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan, ha circa 80 milioni di abitanti ed è al centro di pervasive e continue rivalità geopolitiche tra gli attori globali, la residua influenza russa e il retaggio sovietico. Terra di frontiera tra la civiltà orientale e sede di città dalla fama leggendaria (Bukhara e Samarcanda), caravanserragli e vie di commercio battute da mercanti, religiosi e intellettuali, gode di una diversità etnica peculiare, per quanto sia schiacciante la maggioranza musulmana. Le relativamente giovani repubbliche si sono evolute lungo identità cristallizzate nella storia presovietica, tra khanati, confederazioni tribali, sistematiche rivalità e il travolgente imperialismo russo. L’esperienza sovietica ha lambito la regione modificandone assetti demografici e impiantando comunità etniche frutto delle megalomanie staliniane o di tentativi di sfruttamento economico, trasformatisi in colossali fallimenti. Affianco alla maggioranza musulmana, hanno prosperato per secoli minoranze abramitiche come la comunità ebraica di Bukhara e le diverse comunità cristiane. Tracciare un ritratto delle comunità cristiane resta un utile mezzo per comprendere non solo un aspetto (seppur minoritario) della diversità demografica della macroarea, ma anche un efficace strumento della propaganda e dei tentativi di cooptazione del Cremlino in un area geografica fortemente contesa.
Il Cristianesimo arrivò in Asia centrale dalla Persia nel I secolo. Secondo la leggenda, l’apostolo Tommaso si recò a Samarcanda (ora città dell’Uzbekistan) lungo la leggendaria rotta della Via della Seta, diffondendo il verbo tra i nomadi e le comunità locali, nominando diversi vescovi. Per tutto il II e il III secolo il Cristianesimo si radicò principalmente nelle città carovaniere. Esistono numerosi fonti o reperti archeologici della presenza di diverse chiese cristiane, principalmente di rito nestoriano (setta ereticale che sosteneva l’esistenza, in Gesù Cristo, oltre che di due nature anche di due persone e che ebbe grande diffusione in Oriente). Tuttavia, intorno al XIV secolo, il Cristianesimo iniziò a essere surclassato dall’Islam e dal Buddismo, scomparendo praticamente per diversi secoli.
Una nuova fase del Cristianesimo è iniziata verso la metà del XIX secolo, con l’arrivo della Chiesa ortodossa russa e dei primi russi etnici. Lo zarismo, nel corso delle sue campagne di conquista tra Siberia e Asia Centrale, patrocinò l’immigrazione nel territorio del Turkestan (il nome che la regione aveva assunto nella toponomastica del Cremlino) di un costante flusso migratorio di contadini, soldati, letterati, artigiani o funzionari, mettendo in atto un tentativo ambizioso di ricomposizione etnica della regione oltre che un “divide et impera” già usato, con un certo successo, nel mosaico caucasico. L’Ortodossia fiorì nelle capitali, negli agglomerati urbani eredità di forti militari e nelle comunità socialiste, anche lungo tutto il percorso temporale dell’esperienza sovietica. La repressione atea delle autorità sovietiche colpì brutalmente tutte e tre le religioni abramitiche con la consueta pratica di demolizione dei luoghi di culto, persecuzione del sacerdozio, diffusione dei sentimenti e propaganda antireligiosi. La fine della Seconda guerra mondiale, le deportazioni punitive staliniane, i tentativi di sfruttamento agricolo delle cosiddette “terre vergini” costituirono (volontariamente e non) un’altra fase di ulteriore rafforzamento del Cristianesimo nella regione. Furono profondamente russificate le città, la toponomastica, le élite all’interno del Partito, nonché i gangli delle economie e delle amministrazioni delle cinque repubbliche socialiste. Con il crollo del Muro di Berlino, un abitante su quattro (26%) degli -stan era di etnia russa e di fede ortodossa.
Da quel momento tutto cambiò. Dalla fine dell’esperienza sovietica, raggiunta l’indipendenza, le repubbliche centroasiatiche riscoprirono l’identità islamica (spesso edulcorata sotto un oppressivo controllo statale), il nazionalismo e le rivalità etniche, con annessi conflitti di frontiera e guerre civili come in Tagikistan. Dall’enorme e sottopopolato Kazakistan al montuoso e instabile Kirghizistan, si instaurarono forti regimi presidenziali, vere e proprie democrature (quando non dittature personaliste come in Turkmenistan) sospinte tra l’incertezza economica, progressiva de–russificazione demografica e istituzionale, perdita di influenza del Cremlino nei processi decisionali delle repubbliche prima soggette. La fine del sogno sovietico, l’instabilità economica e l’ostilità retorica nazionalista dei leader locali inaugurarono un fenomeno di emarginazione sociale della minoranza e flussi migratori costanti (molto forti anche tra la comunità etniche titolari) verso la Federazione, privando le giovani nazioni di capitali, professionisti, tecnocrati e laureati prima indispensabili. Un processo inesorabile, affiancato dalla progressiva perdita di importanza del predominio del russo (e conseguente influenza del Cremlino) a scapito delle lingue nazionali turcofone. Ad oggi, solo il Kazakistan ospita una nutrita comunità russa (oltre il 20%, maggioritaria nelle regioni del Nord, anche se in progressiva sparizione) mentre nelle altre repubbliche si va da un residuo 6,7% di Kirghizistan e Turkmenistan a un misero 0,5% del Tagikistan.
Un’occhiata nel dettaglio a queste percentuali aiuta a comprendere il presente e l’incerto futuro del Cristianesimo nella regione. Il Kazakistan, fin dalla dissoluzione sovietica, ha intrapreso un processo di relativa crescita all’interno di un sistema capitalista legato all’esportazione delle immense riserve di idrocarburi. La comunità etnica kazaka ha ribaltato, grazie a tassi di fertilità più alti e al supporto statale, il precedente predominio della maggioranza russofona, confinando quest’ultimi nelle regioni del Nord, tra supporto del Cremlino, emigrazione costante e paure secessioniste delle autorità di Nursultan, anche in vista della dissoluzione ucraina. In Turkmenistan e in Uzbekistan i russi vivono nei principali agglomerati urbani, mentre in Tagikistan v’è stato un vero e proprio esodo principalmente frutto del fenomeno bellico intestino (1992 – 97) e dello forte regressione economica. Al giorno d’oggi, oltre a questi fattori, a minacciare la sopravvivenza del Cristianesimo nell’area è il radicarsi ineluttabile dei fenomeni jihadisti, revivalismo islamista con annessi attentati e persecuzioni. Fattori come la mancata crescita economica, l’esclusione sistemica di importanti settori demografici delle repubbliche, lo sradicamento di fronte all’oppressione statale, oltre che il radicarsi di un Islam di matrice wahhabita, hanno spinto diverse migliaia di centroasiatici nelle fila dello Stato Islamico o all’interno dei diversi gruppuscoli jihadisti attraverso il globo. Caduta Mosul e Raqqa e crollato l’esperimento califfale siro-iracheno, i governi stanno assistendo al ritorno degli espatriati, reagendo con un mix di repressione e noncuranza ed è facile pensare che in futuro l’area geopolitica possa diventare, soprattutto nei settori a più scarso controllo statale, una fucina per la chiamata alla guerra santa islamista.
Seppur ridotta rispetto al passato, in continua ricomposizione demografica e colpita da bassi tassi di natalità, secolarismo, emigrazione, frammentazione e scarso supporto (quando non sospetto) da parte delle autorità, la comunità cristiana costituisce ancora un residuo strumento che il Cremlino può imbracciare nelle relazioni altalenanti con il suo ex impero. Dagli anni 2000, Mosca ha assistito, tra alti e bassi, a uno perdita di influenza nelle questioni dell’area, a favore di potenze in ascesa come la Cina e gli Stati Uniti. Pechino ha investito notevoli somme nel ristrutturare le infrastrutture, invadere i mercati con merci a basso costo e collegare i Paesi all’interno dell’ambizioso piano della nuova via della Seta. A fronte di un rinnovato “grande gioco” di vittoriana memoria, le cinque repubbliche hanno potuto approcciarsi con il Cremlino da una maggiore posizione di forza, costringendo le élite russe a politiche più pragmatiche e bilanciate. Il ridimensionamento demografico ortodosso, il progressivo distacco delle repubbliche centroasiatiche dall’uso del russo come lingua franca, oltre che la crescente influenza cinese costituisce un bivio per il futuro decisionale delle strategie di politica estera russe: coinvolgere le strutture amministrative ortodosse della Federazione nel patrocinio attivo; preservare e sviluppare ulteriormente le comunità russo ortodosse nell’area; incentivare l’emigrazione dei russofoni nel territorio della Federazione, per compensare il gravoso calo demografico fino ad esaurimento del bacino di affluenza. Un “trade off” in cui è in gioco il futuro dei seguaci di Cristo in Asia Centrale. Al momento la strategia di Mosca ha scelto l’ambiguità tra investimenti nella costruzione di nuovi edifici religiosi, attività missionarie e un maggior impegno del patriarcato negli affari centroasiatici, mentre resta fortissimo l’appeal panrusso, che dai territori delle Federazione attira la diaspora russa globale, spingendola al ritorno in patria per contribuire allo sviluppo economico e politico della nazione a cui legittimamente appartengono.