Un paio di mesi fa ho avuto l’occasione di assistere ad una conferenza al centro culturale russo di Beirut. Titolo dell’incontro è “L’Impero russo e il Vicino Oriente tra diciannovesimo e ventesimo secolo”, convitato di pietra l’ortodossia. Biografo di Nicola II ed esperto di monarchia russa, il relatore traccia la parabola dei rapporti dell’impero zarista con il Vicino Oriente, identificando nella religione una delle direttrici dell’influenza di Mosca nella regione. Benché oggetto della trattazione sia un’epoca conclusasi con la “rivoluzione” dell’ottobre 1917, il parallelo con l’attualità non sfugge a nessuno. Tantomeno al compiaciuto monaco seduto in prima fila.
Tra Russia e Vicino Oriente il legame fondato sulla comune religione è di lunga data, affondando le proprie radici nella narrazione secondo la quale l’impero degli zar si configuri come erede dell’illustre predecessore bizantino e di Costantinopoli. “Terza Roma” secondo Filofej, Mosca ha raccolto il testimone di potenza ortodossa e protettrice dei compagni nella fede in tutto il mondo. Al di fuori della Russia, i cristiani ortodossi si concentrano nei Balcani, nel Caucaso e nel Vicino Oriente. Quest’ultima area finì progressivamente sotto il controllo turco a partire dal quindicesimo secolo. Una conquista che costituì il pretesto per una contrapposizione ideologica – con immancabili risvolti e interessi geopolitici – tra l’Islam ottomano e la minoranza ortodossa sparsa tra Turchia sud-orientale e Levante.
Benché meno intense rispetto a quelle con i confratelli balcanici e caucasici, le relazioni tra Mosca e chiesa ortodossa d’Oriente sono solide e di lunga data. Già nel sedicesimo secolo, si registrano donazioni da parte di Ivan il Terribile verso gli ortodossi levantini. Circa cent’anni dopo, la permanenza di due anni a Mosca da parte del patriarca di Antiochia Macario gettò le basi per una cooperazione che vide la chiesa ortodossa orientale gradualmente diventare una sorta di quinta colonna della Russia nella regione, ben al di là delle mere questioni rituali. Malgrado un temporaneo appannamento dei rapporti bilaterali in corrispondenza del regno dell’occidentofilo Pietro il Grande a cavallo tra Seicento e Settecento, nuovo slancio viene dal Trattato di Küçük Kaynarca nel 1774 a termine della quinta guerra russo-turca. Tra i vantaggi accordati allo zar vincitore, il permesso di far navigare i cristiani ortodossi con la bandiera della Russia e la costruzione di una chiesa russa ortodossa a Istanbul (che non fu mai costruita). Condizioni che Mosca interpretò come un’investitura a protettrice dell’ortodossia orientale cui ricorse sia quando corse in aiuto dell’ortodossa Grecia nella sua lotta per la liberazione dal giogo ottoman-maomettano (1821-1830) che nella guerra di Crimea (1853-1856). Quest’ultima vide in un affronto a carattere appunto religioso il casus belli formale: l’affidamento delle chiavi della chiesa della Natività di Betlemme da parte del sultano ottomano ai cattolici e non agli ortodossi.
Nel 1882, nuovo impulso all’interesse e alla presenza russi nel Levante fu dato dalla fondazione della Società imperiale ortodossa palestinese per volere dello zar Alessandro III. Finanziata dalla casse imperiali e tuttora attiva, si occupa della promozione di pellegrinaggi in Terra Santa, di studi sulla Palestina e di cooperazione con le genti del Vicino Oriente. Evocativo il motto in esergo al sito internet dell’istituto: “Per il bene di Sion non tacerò, né resterò inerte per Gerusalemme”. Malgrado l’ateismo di Stato, neppure l’epoca sovietica pose fine alla liaison tra Cremlino e ortodossia d’oriente, accentuandone ovviamente il carattere di elemento di penetrazione geopolitica rispetto a quello della pura religiosità.
Oggigiorno, l’ortodossia levantina è rappresentata da due patriarcati. Quello di Antiochia è competente per Siria, Libano, Iraq e Turchia orientale. Conta all’incirca un milione di adepti, di cui la metà in Siria e 300 mila nel paese dei Cedri, oltre ad una consistente diaspora sparsa per il mondo. Lingua rituale e quasi totalità di clero e fedeli sono etnicamente arabi. Più ridotto il patriarcato gerosolimitano, esteso su Giordania, Israele e Territori Occupati con un totale di circa 200 mila fedeli prevalentemente arabi (mentre i vertici sono perlopiù etnicamente greci). Tra Antiochia e Gerusalemme non corre esattamente buon sangue, impegnate nel contendersi sia i danari provenienti dai fratelli moscoviti che l’influenza nella regione.
Se si pensa alla triangolazione Russia – ortodossia – Vicino Oriente oggi, il pensiero non può che correre alla Siria. La “sponda ortodossa” nel dossier siriano è importante per varie ragioni. Innanzitutto, è un modo per rinsaldare un’alleanza “trascendente” – e quindi atemporale – a fronte di quella “immanente” con Bashar al Asad. Benché la vittoria di Damasco sul terreno sia ormai incontrovertibile, l’asse Mosca – Damasco è suscettibile di mutamenti e tradimenti come ogni creazione umana. Come la storia ha invece dimostrato, il legame tra Cremlino e ortodossia d’Oriente si è rivelato resiliente a fronte di cambi di sovrani e governi, incluso il settantennio sovietico di ateismo istituzionalizzato. Per di più, non ci si trova di fronte ad un aut aut, bensì a due alleanze che concorrono nella stessa direzione, con il regime di Asad – espressione esso stesso di una minoranza (quella sciita alauita) – visto come nume tutelare da una parte consistente delle minoranze siriane (inclusa l’ortodossa) alle prese con una stragrande maggioranza sunnita nel Paese.
Intervenendo nel ginepraio siriano, Mosca ha ribadito l’immagine di sé come paladina dell’ortodossia, brandendo la spada da potenza cristiana per combattere in una novella “guerra santa”. Proprio l’espressione di “guerra santa” è stata utilizzata dal metropolita di Mosca Kirill, nel quale il Cremlino ha trovato un fedele sostenitore. Forte dell’espansione dello Stato Islamico negli scorsi anni, la Chiesa ortodossa russa ha ribadito più volte la necessità di difendere i cristiani dalla persecuzione in occasione di momenti pregni di simbolismo. Basti pensare allo storico incontro tra Kirill e papa Francesco a Cuba nel 2016, durante il quale la comunione d’intenti nella difesa dei fratelli cristiani ha ecumenicamente travalicato la frattura cristiano – ortodossa. Di ancora maggiore (inquietante, nda) eloquenza, la benedizione impartita sempre da un vescovo russo ai caccia pronti a partire per la prima missione russa nei cieli di Siria nell’ottobre 2015.
Il fine precipuo dell’impaludamento ortodosso di cui è stato avvolto l’intervento russo, tuttavia, è il tentativo di giustificare ai cittadini stessi della Federazione l’impiego di risorse umane e finanziarie in una guerra che a un certo momento pareva destinata a tramutarsi in un secondo Afghanistan. La retorica panortodossa, tuttavia, non sembra avere grande presa. Come le manifestazioni di protesta contro la cessione della cattedrale di Sant’Isacco alla Chiesa russa a San Pietroburgo o il progetto di costruzione di un’enorme basilica in una piazza centrale di Ekaterinburg hanno reso evidente, una parte significativa di russi diffida chiaramente del connubio d’interessi secolari tra Stato e Chiesa. Un sondaggio condotto dal centro studi Levada ha infatti attestato che il 55% dei russi ritiene che Mosca debba porre fine alla propria campagna siriana. Una posizione che, tra parentesi, non è molto diversa da quella del Cremlino, il quale però è ancora in attesa di raccogliere i dividendi del proprio intervento a fianco di Asad e continua a battere il ferro finché è caldo.
L’uso russo dello smart power riecheggia reminiscenze manzoniane dell’ «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor». L’evocazione di una comunione ortodossa difesa con le armi si aggiunge a una politica linguistica che vede la proposta di introduzione del russo come materia obbligatoria nelle scuole siriane all’ecclettismo linguistico che vede la lingua di Puškin aggiungersi al persiano dell’alleata Teheran tra gli idiomi studiati in alcuni istituti nelle aree a predominanza Hezbollah.
Quanto all’opinione dei diretti interessati, I giudizi variano. Si va dal sostegno dell’arcivescovo di Aleppo alla condanna del metropolita di Beirut, il quale ha denunciato l’ipocrisia di Putin nel condannare l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 e nel successivamente utilizzare il discorso della guerra santa per i propri interessi in Siria. Quanto ai convenuti alla conferenza di cui all’inizio dell’articolo, merita di essere citato il commento di un libanese aspirante russofono: “Secondo me, Mosca dovrebbe fare di più e ricostruire una grande Siria che includa anche il Libano.” Silenzio imbarazzato del relatore di fronte a miraggi da radioso avvenire.