Nessuno seguirà le orme dello chef, sia per assenza di figure comparabili che per scelta di Putin, che stavolta dovrebbe aver imparato dai propri errori. Il presidente è ora più saldo nel suo potere, ma troppo circondato da yes-men.
Abituati ai colpi di scena e alle tortuosità putiniane degli ultimi due anni, quasi non ci è parso vero assistere all’esecuzione di Prigožin: così scenografica, così scontata, così simbolica – a due mesi quasi esatti dalla marcia verso Mosca, ma anche un anno e mezzo dall’inizio della guerra, e via dicendo. Copione troppo lineare, che stride con quanto si era visto fino ad ora: le contrattazioni Wagner-Cremlino, il tradimento senza apparenti conseguenze (nemmeno un semplice arresto, toccato a molti altri ben più cauti di Prigožin), i ricatti incrociati con le Forze armate e la difficoltà oggettiva di riconoscere, nel tandem impazzito Putin-Prigožin, chi stesse davvero usando chi.
Per questo, e anche per le indubbie precauzioni messe in conto dall’ex chef, ci si sta ancora (e legittimamente) interrogando sulla veridicità della notizia della sua morte. Senza complottismi ma con la giusta cautela, la stessa adottata da cancellerie e intelligence di mezzo mondo – nessuna ad oggi si è sbilanciata. In attesa di conferma definitiva, diamo in ogni caso per buona la notizia del 23 agosto. Anche perché, pure nell’ipotesi di un ben orchestrato scambio di persona, sarebbe comunque in funzione di una definitiva uscita di scena del leader Wagner. Ed è evidente che non si può tornare più indietro, specie dopo l’unzione di Putin che ha ufficialmente chiuso il caso.
Se dunque possiamo affidarci al Rasoio di Occam non vi è bisogno di fare chissà quali speculazioni su ragioni e mandanti della strage. Dopo il 24 giugno il piano si era irrimediabilmente inclinato, senza alcuna possibilità di raddrizzarlo. In questo senso, le trattative e persino gli incontri semisegreti con le autorità russe non sono stati altro che un bluff, o al massimo un temporeggiamento. L’unica cosa che possiamo aggiungere è che Prigožin non aveva solo Putin come nemico. Anzi quest’ultimo, è bene ricordarlo, era stato il suo grande protettore, almeno fino a quando le sue intemperanze non avevano superato qualsiasi soglia di tollerabilità. Ma è arduo credere che i vertici della Difesa, acerrimi nemici dello chef, abbiano mosso la contraerea (se di questa si è trattato) senza il consenso del leader supremo.
Quel che è certo è che Prigožin resterà un personaggio piuttosto isolato nella storia russa. Per carattere, ambizioni e azzardi, nonché per il peculiare rapporto intrattenuto con il leader della nazione. A suggerire l’unicità di ciò a cui abbiamo assistito in questi mesi e anni non è infatti solo l’assenza, sulla scena, di figure comparabili – benché in generale non manchino personaggi avidi o sopra le righe, nell’ecosistema politico-militare russo. È soprattutto la necessità odierna del Cremlino di correre ai ripari. Ovvero di evitare una replica di quanto accaduto.
Decreti su decreti si affrettano a ricomporre la galassia delle milizie private, obbligandole sia a inquadrarsi nelle forze regolari che a prestare giuramento di fedeltà allo Stato russo – quindi al suo presidente. Resteranno zone grigie, come la Rosgvardija alle (in)dirette dipendenze dello zar, ma la parabola di Prigožin e di altre figure chiave degli apparati di sicurezza rivela un evidente cambio di rotta. Tra chi ha saputo reinventarsi un ruolo più leale – vedi Kadyrov, molto meno baldanzoso dello scorso autunno – e chi invece non ha potuto o voluto fare in tempo – il generale Surovikin ormai uscito dalle grazie presidenziali – è tutto un rimescolarsi di carte. Con un chiaro leitmotiv: non è più tempo di scherzare.
Lo impone la guerra d’Ucraina. Forse non sarà reale il bilancio proclamato da Kiev (260mila soldati russi uccisi), ma di certo la sua controffensiva, troppo presto data per morta, costringe ancora Mosca a tenere alta la guardia. La Wagner ha fatto il suo tempo, ma i moniti di Prigožin sulle inefficienze e i cortocircuiti dell’esercito russo restano attuali.
E qui si apre il grande paradosso. Se da un lato la scomparsa dell’energico leader del gruppo Wagner toglie di mezzo un chiaro fattore di instabilità, consentendo a Putin di rinsaldare il proprio comando, dall’altro la fine delle sue strigliate abbassa il morale degli uomini al fronte e probabilmente riduce il contatto tra il presidente e la dura realtà sul campo. A forza di messaggi edulcorati e mezze verità, come da stile comunicativo di Šojgu e Gerasimov, la percezione putiniana dei fatti d’Ucraina potrebbe tornare ad alterarsi.
Non sappiamo quanto lo zar apprezzasse realmente le sortite del suo ex chef, almeno fino a quel 24 giugno che ha cambiato tutto. Ma possiamo immaginare che non vorrà più correre il rischio di allevare una serpe in seno. Prigožin e la Wagner sono stati certamente utili in una fase in cui la Russia non voleva esporsi – specie nelle sue operazioni sul continente africano. Adesso quella fase è superata. Mosca ha svelato le sue carte e – fatte salve le questioni logistiche e la conoscenza del terreno – non ha più bisogno di mandare avanti i suoi mercenari o i suoi uomini verdi.
Sono molto lontani ormai i tempi in cui lo Stato russo fingeva di non conoscere il gruppo Wagner – e parallelamente Prigožin querelava chi ne svelava il ruolo di guida. Eppure oggi il clima sembra tornato lo stesso. A sentire Peskov, portavoce del Cremlino, non c’è più nulla da dire su una compagnia ormai priva di status e gerarchia. E non solo perché assieme al suo leader sarebbe morto anche il suo fondatore e comandante, Dmitrij Utkin. Ma perché a vacillare, se non proprio a svanire, ormai sembrano destinati i suoi scopi. Wagner torna nell’ombra, forse per morire. Esattamente com’era nata.