Zelenskij cerca una conferma elettorale alle elezioni di domenica prossima per trattare con una solida base interna con Mosca. Nel frattempo, alza la posta diplomatica chiamando in causa Londra e Washington e cercando di inserire la Crimea nel confronto con Putin.
Continuano i rimpalli, tra Russia e Ucraina, in merito all’apertura delle tanto attese trattative di pace per il Donbass. Se da una parte entrambi i Paesi, stando alle dichiarazioni ufficiali, appaiono intenzionati al dialogo e al superamento dell’attuale fase diplomatica, dall’altra non mancano frizioni e ostacoli di varia natura. Come i segnali di chiusura provenienti proprio da Donetsk.
Zelenskij non aprirà alla Russia almeno fino alle prossime elezioni parlamentari. Si rende ben conto che la sua presidenza finirebbe sotto pressione da troppi fronti, per riuscire a resistere. Intanto, chiedendo informalmente la presenza degli Stati Uniti e della Gran Bretagna nelle trattative con Mosca, sta cercando di rafforzare la posizione contrattuale del proprio Paese.
Viene così sfatato ogni giorno di più il mito di un presidente filorusso, che una volta raggiunto il potere avrebbe messo a repentaglio l’indipendenza di Kiev. Quest’ultima è un valore non negoziabile per chiunque ambisca ad avere un consenso superiore al 10% in Ucraina.
La via è stata tracciata già da Porošenko e dalla sua guerra contro le province ribelli – in opposizione alla frantumazione statale profetizzata da molti. Di questa via sono possibili molte declinazioni, naturalmente. Quella di Porošenko stesso era fondata sull’identità e sullo slogan “Esercito, Fede, Lingua”. La nazione ucraina era interpretata come il frutto di queste tre variabili, in senso quasi del tutto esclusivo ed escludente. Zelenskij ha scelto una strategia diversa, più inclusiva, cosmopolita e aperta alla “contaminazione” tra ucrainofoni e russofoni. In ultima analisi, una visione rivolta alle giovani generazioni e al futuro. Ciò gli ha permesso, tra l’altro, di vincere le elezioni di aprile.
Tuttavia, l’impianto di Zelenskij non intende minimamente mettere in discussione l’integrità territoriale ucraina, e nemmeno le sue aspirazioni europee. Oggi forse – dopo mesi di schermaglie con Mosca, e di frequenti incontri tra le autorità di Kiev e quelle Ue e dei principali Paesi del continente – non si ricordano più gli allarmi pre-elettorali relativi a una paventata manipolazione dell’ex comico per mano di Putin, o addirittura di una russificazione dell’Ucraina. Timori che serpeggiavano, in modo pretestuoso, tra le cancellerie europee e addirittura tra i think tank vicini agli apparati statunitensi, più che tra i cittadini ucraini che invece hanno preferito dargli fiducia.
In realtà, il fantasma di uno Zelenskij filorusso è stato agitato consapevolmente – e con un certo successo all’estero, come abbiamo visto – da Porošenko e il suo staff, nella speranza di rimanere in sella per un altro mandato. Ma sarebbe bastata anche una breve indagine biografica sul futuro presidente, e ad esempio sul suo impegno finanziario in supporto delle truppe lealiste nel Donbass, per smentire ogni ipotesi in questo senso.
Chiusa questa parentesi, si può tornare a ragionare sulle prospettive di pacificazione con la Russia, premessa indispensabile per una stabilizzazione anche interna dell’Ucraina.
Forse Zelenskij ha compreso che senza il dialogo non si va da nessuna parte. E non perché il governo centrale di Kiev sia in una posizione di debolezza nei confronti dei ribelli (al contrario, sembra consolidare ormai le sue posizioni), né perché sia obbligato a una trattativa con Mosca in forza della superiorità economica e militare di quest’ultima. Bensì perché la cosiddetta ribellione delle due repubbliche separatiste non può venir meno senza un approccio pragmatico, realista e disposto all’ascolto (naturalmente reciproco). Una guerra a oltranza, al di là dei suoi pesanti risvolti umani, non porterà da nessuna parte.
Resta da capire, comunque, quali siano le chance di successo dell’iniziativa di Zelenskij, ancora non molto chiara nei suoi termini. Le condizioni necessarie (ma non sufficienti, senza una risposta positiva di Donetsk, Luhansk e soprattutto Mosca) sono almeno due.
La prima riguarda, com’è ovvio, la qualità della proposta messa in campo. Dalle prime dichiarazioni, sembrerebbe che Zelenskij voglia mettere sul piatto l’appartenenza della Crimea, data ormai per acquisita da Mosca. Nessuna chance di riottenerla, ma inserirla nelle trattative forse permetterà agli ucraini di acquisire vantaggi sul vero fronte, quello delle repubbliche separatiste. Che fiutando forse già il pericolo, mettono oggi le mani avanti rispetto alle trattative. Poi c’è la questione della neutralità di Kiev, che alcuni si auspicano possa tradursi in una “finlandizzazione” del Paese. Ma questo forse dovrebbe avvenire su impulso dell’Occidente (che così rinuncerebbe ad avanzare i propri confini fino ai confini con la Russia – ipotesi improbabile) che per scelta autonoma di Zelenskij.
La seconda condizione per il successo dell’iniziativa diplomatica concerne la forza contrattuale del neopresidente ucraino. Soggetta inevitabilmente ai risultati elettorali delle prossime parlamentari, che decreteranno il reale successo del suo avvento presidenziale, o al contrario il suo precoce fallimento. Lo scenario dell’anatra zoppa inquieta Zelenskij, che peraltro non si è distinto nelle prime settimane del suo mandato per scelte sagge e lungimiranti (e nemmeno popolari, per giunta) relative alla sua amministrazione.
Per evitare rischi, o arginare i danni, Zelenskij ha optato per l’emulazione del suo omologo francese Macron. Che pur tra tante differenze istituzionali e di contesto, ha visto il rinnovo dei parlamentari subito dopo il suo insediamento, trainato politicamente dalla vittoria appena ottenuta ai ballottaggi. Nel caso di Macron non si era trattato di una scelta, ma di una felice (dal punto di vista dell’Eliseo) coincidenza di appuntamenti elettorali. Zelenskij ha invece forzato le cose, sciogliendo anticipatamente la Verkhovna Rada, anche se a tutti gli osservatori è apparsa come una mossa quasi obbligata per evitare lo stallo.
Il momento è per ovvi motivi il migliore possibile per mettersi alla prova del giudizio popolare. A meno di credere che un consenso del 70%, quale si è manifestato nei ballottaggi, possa essere ulteriormente accresciuto o anche solo mantenuto.
Con un mandato presidenziale rinforzato da una solida maggioranza parlamentare, Zelenskij potrà trattare ad armi (quasi) pari con Mosca. E forse compiere con maggior libertà qualche scelta poco popolare, anche sul fronte interno.