Il nuovo episodio lampo della guerra di Baku contro i separatisti della repubblica di Artsakh spiega molte cose, dagli equilibri russo-turchi all’intermittenza delle pressioni diplomatiche occidentali. Nuova puntata della rubrica “Dietro lo specchio” di Fulvio Scaglione
Quello che prima o poi sarebbe successo al Nagorno Karabakh era diventato chiaro già nel 2020, con la guerra che durò sei settimane, fece 7mila morti (in gran parte armeni) e portò l’Azerbaigian a occupare una parte importante della regione fino ad allora totalmente governata dalle autorità dell’autoproclamata (e mai riconosciuta, nemmeno dall’Armenia) Repubblica dell’Artsakh. Gli azeri, cosa ancor più importante, riuscirono ad attestarsi in una posizione strategica che, al di là dell’aspetto territoriale, assicurava loro il dominio sull’entità separatista. Come si è poi visto con il blocco del Corridoio di Lachin, l’unica via di collegamento tra l’Armenia e il Nagorno ancora “libero”, che ha stremato la popolazione dell’area indipendentista.
Quello il precedente. Ma perché l’Azerbaigian dell’autocrate Ilham Aliyev ha deciso proprio ora di sferrare il colpo decisivo, quasi sapendo che avrebbe incontrato poca resistenza militare (gli azeri dispongono di grandi mezzi finanziari e sono armati da Turchia e Israele) e ancor meno opposizione politica? La risposta, forse, sta nell’incontro tra Vladimir Putin e Recep Tayyep Erdoğan che si è svolto poco tempo fa a Soči. I portavoce dei due presidenti avevano più volte spiegato che si sarebbe parlato dell’accordo sul grano ucraino, rimasto in vigore dal luglio 2022 al luglio 2023 e poi unilateralmente disdetto dalla Russia. Sul tema, Putin aveva respinto molte volte le proposte dell’Onu, ritenute insufficienti rispetto agli interessi russi, e nemmeno la trasferta di Erdoğan a Soči l’aveva convinto.
Rottura tra Russia e Turchia, dunque? Non proprio. Piuttosto il contrario. Mosca e Ankara sono abituate a conciliare i contrari. Sono su sponde opposte in Libia e Siria, la Turchia ha considerato illegittime le annessioni russe di territorio ucraino, a partire dalla Crimea dove Erdoğan è tra l’altro sensibile alla questione dei tatari. Però restano in affari, si parlano, trovano intese. E qualcosa di simile, al riparo dei riflettori, dev’essere successo anche a Soči. Un minimo di cronologia. Putin ed Erdoğan si incontrano il 4 settembre. Il 9 e il 10 il presidente turco partecipa al G20 in India dove trova modo di smentire la narrazione ucraino-occidentale e dire che Putin non ha tutti i torti: l’accordo sul grano (Black Sea Grain Initiative, nel linguaggio dell’Onu) ha consentito l’esportazione di 33 milioni di tonnellate di cereali andati per il 43% a Paesi occidentali e alla Cina, per il 14% alla stessa Turchia e per il resto ai Paesi bisognosi dell’Africa. Nelle settimane successive si intensificano le voci su un blocco della Turchia alle forniture di armi all’Ucraina. Blocco che riguarderebbe non solo i canali ufficiali (a cominciare dai droni Bayraktar, prodotti dall’azienda diretta dal genero di Erdoğan, che addirittura progettava di costruire uno stabilimento in Ucraina) ma anche il mercato nero, non ignoto alle autorità turche e non insensibile alle loro direttive. Infine, ed è cosa dei giorni scorsi, l’Azerbaigian muove all’attacco del residuo Nagorno Karabakh indipendentista, con l’entusiastico sostegno della Turchia.
Come tutti sanno, dal punto di vista del diritto internazionale il Nagorno Karabakh appartiene all’Azerbaigian. Lo stabilirono diversi trattati firmati all’epoca della fine dell’Urss e lo ha ribadito una Risoluzione Onu del 2008. Ma questa riconquista manu militari prospetta una politica del fatto compiuto e una specie di pulizia etnica (Aliyev dice di voler “reintegrare” la maggioranza armena del Nagorno nella società azera ma non si vede come questo possa avvenire) e religiosa (gli armeni sono cristiani, gli azeri musulmani) che non possono in alcun modo essere accettate. E che, se gli indizi di cui sopra hanno un qualche senso, pare il frutto di un patto tra Russia e Turchia con il beneplacito del governo armeno del premier Pashinyan, che non aveva le forze per difendere gli indipendentisti dell’Artsakh e che, se avesse tentato di farlo, avrebbe messo a rischio anche il proprio Paese.
Tutto molto cinico, a spese dei 120mila armeni del Nagorno Karabakh. Ma se parliamo di realpolitik non dobbiamo trascurare nemmeno le mosse di Usa e Unione Europea. Washington ha incassato il recente riavvicinamento dell’Armenia senza poi muovere un dito per frenare l’ambizione azera. D’altra parte, perché avrebbe dovuto contrastare un vecchio e fedele alleato come Aliyev e scontentare un leader sempre bizzoso come Erdoğan? È dal 2006, quando fu inaugurato l’oleodotto BTC (Baku-Tbilisi-Ceyhan) che gli americani cercano di staccare il Caucaso meridionale dall’orbita russa e farlo “scendere” in quella turca… L’Unione Europea, al netto delle rituali esortazioni alla moderazione, si è ben guardata dal prendere posizione. E la ragione è ovvia: dopo aver rinunciato al gas russo, abbiamo chiesto all’Azerbaigian di fornirci 20 miliardi metri cubi di gas l’anno invece dei soliti 8. Potevamo mettere a rischio tutto questo per i 120mila armeni dell’Artsakh?
Fulvio Scaglione