Da una parte una piccola e montagnosa nazione centroasiatica di poco meno di sette milioni di abitanti, dall’altra un poderoso gigante mediorientale recentemente nell’occhio del ciclone per il contrasto sempre più caldo con gli Stati Uniti e gli alleati. Tra Tagikistan ed Iran esiste (e persiste) un legame solido che trova radici nelle comune appartenenza alla “stirpe iranica”, oltre alla comunanza linguistica nella famiglia del Farsi. Seppur non confinanti tra i due Paesi si è sviluppata una comunanza ideologica, tra alti e bassi, in grado di sorpassare la differenza tra lo sciismo rivoluzionario di Teheran e il sunnismo ampiamente praticato tra le montagne del Pamir. Con il crollo dell’Unione Sovietica e la conseguente fine dell’esperienza socialista in Asia Centrale si è aperta una finestra di possibilità che i decision maker iraniani non hanno esitato a colmare. Iraniana la prima ambasciata costruita a Dušanbe (già Stalinabad, capitale del Paese), iraniano il primo riconoscimento internazionale e iraniani i fondi con cui lo stato centrale tagiko ha implementato la costruzione di nuove moschee alla ricerca di un re-islamizzazione del Paese. La repubblica teocratica ha, inoltre, preso parte alla devastante guerra civile che ha insanguinato il paese per più di 5 anni prendendo le parti dell’Opposizione Tagika Unita (UTO), gli islamonazionalisti che si opponevano ai diktat dell’allora (e attuale) presidente Emomali Rahmon. Scelta obbligata quella iraniana, in quanto gli ayatollah vedevano con favore l’instaurazione di un governo vicino agli interessi islamisti, temendo la continuazione di politiche di stampo sovietico con il rischio contagio in un contesto geopolitico molto fragile. Innegabile, infine, il ruolo dell’Iran nei complicati dialoghi postbellici conclusi con la vittoria elettorale di Rahmon nel 1999 e l’accordo di parziale condivisione del potere con gli influenti islamisti.
L’elezione del conservatore Ahmadinejad ha rappresentato, nel quadro delle relazioni bilaterali, l’apogeo di una relazione di per sé promettente. La volontà del controverso Primo ministro iraniano di inserire la piccola repubblica centroasiatica nella sfera di influenza e prossimità iraniana ha incontrato la necessità del leader tagiko di mediare tra l’eccessiva presenza dei decision maker russi nella politica estera russa e l’emergere della Cina nelle questione di pertinenza degli “- stan”. Il Tagikistan, tutt’ora il più povero dei Paesi facenti parte del Turkestan sovietico, ha beneficiato di copiosi investimenti e fondi iraniani per la costruzione e implementazione di importanti progetti infrastrutturali, come il tunnel Istiqlol da 40 milioni $ e la centrale idroelettrica Sangtuda-2 da 260 milioni $, che è entrata in funzione nel 2011. In occasione della visita di Stato del presidente Rahmon a Teheran, Ahmadinejad commentò che “Iran e Tagikistan sono uno spirito in due corpi”, paventando una futura e naturale convergenza tra le due nazioni anche in luce dei molti punti in comune che condividono i due paesi.
Da un punto di vista economico, i legami commerciali tra i due Paesi si sono ampliati alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000, passando da 40 milioni $ nel 2000 a 140 milioni $ nel 2007, 177 milioni $ nel 2011 e infine 295,2 milioni $ nel 2013. Tuttavia, la cifra è in calo dal 2013 e ha raggiunto 171 milioni $ nel 2016. L’Iran ha contribuito alla costruzione della centrale elettrica Sangtuda 2 del Tagikistan con una capacità di 220 megawatt di elettricità nel 2011, investendo 180 milioni $ in quel progetto. L’attuazione di tali progetti ha notevolmente migliorato l’immagine dell’Iran come potenza regionale in Asia centrale. D’altro canto, anche il settore privato dell’Iran ha creato molti posti di lavoro in Tagikistan e le società iraniane sono ampiamente coinvolte nell’energia, nelle costruzioni, nei settori agricolo e dei trasporti. Di conseguenza, l’Iran insieme a Cina e Russia, rimane uno dei tre principali partner commerciali del Tagikistan e sono stati firmati più di cento accordi di cooperazione in vari settori tra Teheran e Dušanbe.
Il cambio al vertice a Teheran, con il trionfo del riformista Hassan Rohuani, ha incrinato la relazione bilaterale con il premier che ha costantemente manifestato un certo disinteresse verso i vicini orientali privilegiando dialogare e ricucire le relazioni con l’Europa e gli Stati Uniti d’America, l’Occidente precedentemente egemonizzato. Non solo, la presidenza tagika ha manifestato un crescente fastidio nei confronti della calda accoglienza manifestata dal leader supremo persiano, Ali Khamenei, nei confronti di Muhiddin Kabiri, leader del Partito del Rinascimento islamico del Tagikistan (IRPT). Questa diffidenza bilaterale si spiega con l’ostilità crescente intercorsa tra il governo Rahmon e gli islamisti. A scapito delle promettenti promesse democratiche posteriori al conflitto civile si è rafforzata all’interno della nazione il controllo autocratico delle elites vicine al presidente Rahmon che si è imposto eliminando ogni ostacolo a ogni residuale potere concorrente. Le fragili speranza democratiche si sono infrante di fronte al crescere dell’ostilità del satrapo tagiko verso partiti concorrenti, centri di potere e dissidenti emarginati, diffamati quando non fisicamente eliminati.
Il partito del Rinascimento Islamico è stato bandito, il governo ha arrestato o costretto all’esilio i suoi membri dando inizio a una campagna di forte controllo statale delle velleità islamiche della popolazione. Collegandosi al clima maccartista di “guerra al terrore”, il governo, supportato dalla Russia e di fronte al silenzio delle organizzazioni internazionali, ha dato il via a una stagione di forte demonizzazione dell’islam sciita (demograficamente minoritario nel paese) accusando l’Iran di intromissione perniciosa, di sovvertimento delle istituzioni governative e diffusione dell’Islam sciita con l’obiettivo di trascinare il Paese in una nuova guerra civile. Il Partito della Rinascita Islamica e l’Iran protagonisti di un fantomatico complotto funzionale agli interessi autocratici del presidente mentre il Paese scivola sempre più nel pericolo radicalizzazione islamista come il recente attentato a quattro turisti americani ha espressamente sottolineato. Vittima della repressione l’ufficio di rappresentanza del Comitato di assistenza “Imdod“, intitolato all’Ayatollah Ruhollah Khomeini, che aveva fornito assistenza umanitaria al Tagikistan dalla guerra civile, chiuso nel 2016. Un anno dopo, le autorità hanno chiuso il centro commerciale e culturale iraniano nella città settentrionale di Khujand. Nell’aprile 2016 il servizio doganale del Tagikistan ha iniziato a limitare l’importazione di prodotti alimentari accusandone la scarsa qualità. Il commercio, di conseguenza, è calato a picco arrivando a 98 milioni $ nel 2018.
Dall’inizio del 2019 un ulteriore capovolgimento. Segnali crescenti di disgelo da una parte e dell’altra della barricata che trovano un culmine nella fortemente mediatica visita di Stato di Rohuani in Tagikistan quest’anno. Quali i motivi di tale inversione di rotta?
Da un lato il gigante iraniano, schiacciato dall’isolamento e dalle sanzioni internazionali, impegnato in un conflitto di prossimità con lo Stato ebraico e con l’amministrazione americana ha iniziato a porre maggiore attenzione, logicamente, ai suoi confini orientali e verso l’Asia dopo la frustrazione ricevuta dalle speranze fugate dal mancato supporto europeo. Il governo Rohuani, attaccato dall’esterno e dai conservatori religiosi dell’opposizione politica, ha convenuto sacrificare il supporto verso gli islamisti tagiki preferendo la ripresa dei dialoghi con la presidenza Rahmon e ribadendo la completa estraneità del Paese verso il supporto attivo delle necessità islamiste. Il presidente Rahmon, di sua sponte, guarda con interesse agli investimenti infrastrutturali offerti dall’Iran, alla possibilità che le esportazioni tagike riescano a raggiungere lo strategico porto di Chabar districandosi dal soffocante abbraccio della Nuova Via della Seta cinese e dal patrocinio del Cremlino. Pur di migliorare la precarissima situazione economica e rilanciare il ruolo della nazione nello scacchiere internazionale, Dušanbe è disposto ad accettare, sempre nei limiti di un controllo statale, una maggiore intromissione dell’Iran nelle questioni interne. A fare da collante, nuovamente, l’identità e la lingua persiana in grado di creare ponti (ideologici o meno) nel rispettivo futuro delle due repubbliche.
Un idillio ritrovato che non è esente da difficoltà e ostacoli, in quanto sia la Russia che gli Stati Uniti osservano da lontano consci dei rischi geopolitici di tale ritrovata “amicizia”. Da una parte la Russia non può prescindere, nonostante crescenti difficoltà economiche e demografiche, dal mantenere un piede nell’ex cortile di casa sovietico mentre l’amministrazione Trump, nella sua coriacea politica di contenimento e conseguente roll-back della repubblica islamica, aumenterà la pressione diplomatica sul governo Rahmon offrendo, di conseguenza, ripetute esche economiche che il fragile Tagikistan non potrà ignorare. Infine, bisogna riconoscere che il governo teocratico di Teheran continua a manifestare un forte sentimento di insofferenza verso l’oppressione dell’Islam e dei partiti islamisti da parte dell’autoritario governo Rahmon che continua ad ignorare (e in parte a provocare) la crescita costante dell’islamismo, che Teheran ha tutti gli interessi nel voler intercettare. Una precaria partita tra ideologia e pragmatismo in un contesto politico che non concede errori o distrazioni.