Partner o nemici, Russia e Germania sono destinate a non ignorarsi. E non solo per ragioni squisitamente geopolitiche (la Germania, cuore economico ed aspirante – benché talvolta riluttante – egemone d’Europa, dovrà sempre fare i conti con il suo omologo orientale), ma anche per un legame sanguigno (e sanguinoso) che ne ha attraversato la storia, soprattutto quella novecentesca. Oggi gli interessi commerciali, che generano un enorme volume d’affari, sembrano farla da padrona, ma sullo sfondo resta la competizione per la supremazia nel continente.
Abbiamo intervistato Edoardo Toniolatti, autore della newsletter Noch 4 Jahre sulla politica tedesca.
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Pietro Figuera – Il 10 maggio 2015, giorno successivo alla Parata della Vittoria (in memoria della sconfitta nazista nella Seconda guerra mondiale, ndr), la Merkel era a Mosca per deporre dei fiori sulla tomba del milite ignoto. Un gesto distensivo, che però (almeno agli occhi dei russi) venne oscurato dalle parole della cancelliera stessa: “A causa dell’annessione criminale della Crimea e degli scontri militari in Ucraina orientale, la nostra collaborazione ha subito una battuta d’arresto”. La parola “crimine” era già stata utilizzata nello stesso discorso, a proposito del “crimine dell’Olocausto”. Una stoccata dal forte valore simbolico, anche se di certo non la prima provocazione nei rapporti tra la Merkel e Putin. Umanamente parlando, qual è la relazione tra i due leader? Vi sono stati progressi, dal 2005 (anno della prima elezione della Merkel, ndr) ad oggi? E quali le prospettive di convivenza, dato che con tutta probabilità resteranno entrambi al potere almeno fino alle soglie del prossimo decennio?
Edoardo Toniolatti – Dal punto di vista delle relazioni umane, del carattere e della personalità, non c’è molto da dire: fin dall’inizio Angela Merkel è stata convinta che Putin fosse essenzialmente un bullo, e in questi anni non ha cambiato idea. C’è un interessante aneddoto su un loro incontro nel 2007, raccontato da Paola Peduzzi in un bel pezzo apparso su IL dello scorso febbraio: a Soči, Putin riceve l’ospite mandandole come comitato di accoglienza Koni, il suo labrador nero. Merkel ha paura dei cani, e Putin lo sa benissimo: le foto dei due leader seduti a colloquio, con il cane che gironzola intorno e la Cancelliera in evidente disagio, fecero il giro del mondo. Una classica mossa da bulletto machista, pensò Merkel, e dieci anni dopo la sua opinione non è cambiata.
È cambiato però tutto il resto. Il contesto internazionale innanzitutto, con una leadership globale ormai vacante, nell’era di Trump, e moltissimi occhi che da tempo si rivolgono verso Berlino perché si decida ad occupare quel posto; la situazione della Russia, con la questione aperta delle sanzioni da un lato ma un’influenza sempre più pervasiva nel Medio Oriente dall’altro; e la posizione di Merkel, chiamata sì a guidare il mondo libero ma sempre più debole in patria – tanto che, per quanto sia decisamente probabile, non è ancora detto che riuscirà a formare un governo, e dunque che rimarrà al potere fino alle soglie del prossimo decennio.
In uno scenario così diverso, i due leader (ma anche, indipendentemente da loro, Russia e Germania) dovranno necessariamente trovare un modo di convivere, ma dal punto di vista politico è davvero difficile immaginare come. Nel maggio dell’anno scorso Merkel è volata in Russia, a due anni dalla sua ultima visita, e ha incontrato Putin in un clima di relazioni non peggiorate rispetto all’apice della crisi in Crimea ma neanche molto migliorate: e l’impressione è stata quella di uno stallo prolungato e di difficile soluzione sulle questioni più urgenti, che poi rimangono gli scarsi passi avanti sul Protocollo di Minsk e la Siria.
Fin dall’inizio Angela Merkel è stata convinta che Putin fosse essenzialmente un bullo, e in questi anni non ha cambiato idea. […] I due leader dovranno necessariamente trovare un modo di convivere, ma dal punto di vista politico è davvero difficile immaginare come.
Cupcake Ipsum, 2015
La Germania è spesso considerata la regista delle sanzioni europee alla Russia. Ciò avviene sia per il suo ruolo di guida all’interno dell’Unione, sia per la tradizionale inclinazione della Merkel verso la tutela del diritto internazionale e dei diritti umani. In realtà, tuttavia, anche un osservatore meno attento può accorgersi che Berlino (o meglio la sua economia) è la prima vittima dell’attuale stallo nelle relazioni con Mosca. Come si spiega questo paradosso? E’ frutto di una dipendenza strategica dagli Stati Uniti, o c’è dell’altro?
Se di paradosso si può parlare, è probabilmente dovuto al ruolo ambiguo che la Germania si è trovata a ricoprire sempre di più: quello di potenza egemone, pur controvoglia, in uno spazio sovranazionale, e che di conseguenza ha comportato linee di azione sempre in bilico fra interesse strategico nazionale e guida di una “comunità di nazioni” dal punto di vista sia politico che, diciamo così, morale. Da un punto di vista politico, anche interno, Merkel deve mantenere un profilo di rigidità, visto che l’opinione pubblica tende a essere anti-Putin; ma se invece consideriamo i rapporti economici, le posizioni sono decisamente più sfumate.
Secondo Heribert Dieter l’atteggiamento tedesco verso la Russia è dettato dall’assenza di una strategia complessiva per il futuro, come avrebbe dimostrato la poco accorta gestione dell’avvicinamento europeo all’Ucraina, prima della crisi del 2014. Un atteggiamento più cooperativo con Mosca, anziché competitivo, avrebbe potuto evitare l’escalation di tensioni. Sei d’accordo con questa visione? A tuo avviso, nella cancelleria tedesca è mai sorta una consapevolezza del genere?
Credo che lo scenario complessivo sia troppo complesso per formulare un giudizio netto: il gioco si sta svolgendo su più scacchiere, non solo in Crimea ma anche in Siria e nell’Europa dell’Est, ad esempio, ed è molto complicato riuscire a tenere il punto in maniera coerente e coordinata su tutti i fronti. Più che di una svolta nell’atteggiamento, però, parlerei di una maggiore consapevolezza della situazione, di maggiore realismo. Il Ministro degli Esteri Sigmar Gabriel, ad esempio, ha spesso parlato di recente dell’influenza che “i vecchi imperi” (la Russia, la Turchia, l’Iran) stanno rapidamente riacquistando alla luce del progressivo isolazionismo degli Stati Uniti di Trump, forme di leadership regionale a fronte delle quali le sanzioni e simili interventi punitivi sono tutto sommato un prezzo non eccessivo da pagare. Sembra farsi strada la consapevolezza, insomma, che lo scenario globale al momento è questo e difficilmente cambierà in breve tempo, difficilmente le tendenze si invertiranno: tanto vale prenderne atto e agire strategicamente di conseguenza, magari anche cercando di distendere i rapporti e perché no, rimettendo in discussione le sanzioni – come suggerito nei giorni scorsi da Gabriel stesso.
Difficile però dire quanto questa posizione sia condivisa non solo nel governo – o in quello che, con ogni probabilità, si formerà nei prossimi mesi: Gabriel è un esponente di punta della SPD, ma il suo partito e il suo candidato alla Cancelleria Martin Schulz sono stati sempre piuttosto duri sulla questione russa durante la campagna elettorale. E dalle parti dell’Union le cose non sono meno complesse: Merkel continua ad avere una posizione piuttosto distante dal Cremlino, ma non mancano tentativi di riavvicinamento da parte dei suoi alleati della CSU, il partito bavarese fratello della CDU. A un incontro organizzato a inizio gennaio, i bavaresi hanno invitato come ospite d’onore Viktor Orban: una mossa secondo alcuni tesa anche a riallacciare qualche legame con Putin, tramite – diciamo così – interposto Premier ungherese.
John Maynard Keynes sosteneva che il ruolo storico di Berlino fosse quello di modernizzare il Paese degli Zar. E’ ancora oggi così? Se da una parte è vero che si è lontani dallo spirito dell’asse tra Schroeder e Putin, né tanto meno si parla più di una riedizione dell’Ostpolitik, dall’altra è vero anche che gli scambi commerciali stanno tornando a crescere e soprattutto che certi investimenti tedeschi non si siano fermati con le sanzioni. Penso ai casi Daimler e Siemens, e in particolare al progetto Nord Stream 2, più incoraggiati che osteggiati da Berlino. Cosa puoi dirci in proposito?
Nonostante lo stallo politico, dal punto di vista economico e commerciale le cose non andavano così bene da anni: l’export tedesco verso la Russia ha ripreso a salire per la prima volta dal 2012, generando un volume d’affari di oltre 24 miliardi di Euro. Putin stesso ha detto che la Germania è il partner principale, e molti indizi sembrano confermare il trend.
A parte, ovviamente, la questione Nord Stream 2, che è più complessa e riguarda anche dinamiche interne della politica tedesca.
Bisogna tenere presente, infatti, il tema dell’approvvigionamento energetico nel suo complesso, e il modo in cui ormai da anni la prospettiva di un cambiamento radicale in materia (il cosiddetto Energiewende), con l’abbandono della dipendenza dai combustibili fossili e dal nucleare, sia parte del dibattito politico e di ogni campagna elettorale: un punto di cui si discute sempre moltissimo, ma che puntualmente si scontra con la realtà dell’enorme fabbisogno energetico del Paese. Si pianifica di avere il 95% dell’energia proveniente da fonti rinnovabili entro il 2050, e nella bozza di accordo appena approvata fra Union e SPD si prevede di chiarire una exit strategy dai combustibili entro fine anno – ma l’impressione è che i dettagli resteranno fumosi ancora per un po’. E uno dei motivi probabilmente ha a che fare anche con Nord Stream 2, il colossale progetto di raddoppio del gasdotto che collega Russia e Germania e dovrebbe garantire anche in futuro la tranquillità energetica del Paese, e la possibilità quindi di affrontare l’Energiewende con una certa calma.
Il problema è che Nord Stream 2 è anche, come dicevo, una questione di politica interna. All’interno del governo tedesco, a sostenere il progetto è stata soprattutto la SPD, anche grazie ai rapporti storicamente molto buoni fra Putin e l’ex-Cancelliere SPD Gerhard Schröder, che dopo la carriera politica – ed essere stato la forza motrice dietro il progetto del primo gasdotto, Nord Stream – si è in qualche modo reinventato lobbista con la Russia, soprattutto sulle questioni energetiche: tanto che durante la campagna elettorale c’è stata una piccola polemica quando si è scoperto che il suonome era in lizza per entrare nel CdA di Rosneft, colosso russo del petrolio.
Poco prima del voto del 24 settembre, però, alcuni membri di primo piano della CDU hanno iniziato a criticare il progetto: ad esempio Norbert Röttgen, capo CDU della Commissione Affari esteri del Bundestag, ha dichiarato che l’atteggiamento del nuovo governo su Nord Stream 2 sarebbe stato molto meno favorevole, facendo intendere che la questione sarebbe venuta inevitabilmente fuori in caso di trattative fra i due partiti. Sappiamo com’è andata: inizialmente si pensava che la Grosse Koalition fosse un esperimento concluso, poi però il collasso dell’opzione Jamaika ha riportato Merkel e Schulz al tavolo dei negoziati, ed è da ingenui pensare che non si sia discusso del gasdotto – a favore del quale, sempre per evidenziare i posizionamenti contrapposti, si è espresso esplicitamente anche Sigmar Gabriel, a novembre in visita ufficiale in Russia.
Eppure, nel documento firmato dai leader di Union e SPD e che costituisce la base dell’intesa di governo “Nord Stream 2” non compare neanche una volta. Il che potrebbe tuttavia anche essere un’ulteriore conferma della sua cruciale importanza, strategica e politica.
Rispetto ad altri Paesi, sembra che si sia parlato meno di possibili ingerenze russe nel processo democratico tedesco. Una circostanza forse dovuta alla minore incidenza elettorale dei c.d. partiti anti-sistema, o alla loro relativamente scarsa suggestività europea, se mettiamo a confronto l’AfD e la Linke con il FN francese o l’Ukip britannico. Esistono dei legami, non solo ideologici, tra i partiti tedeschi e la Russia?
In realtà in Germania se ne è parlato parecchio, in previsione del voto: già dal dicembre 2016 il tema degli attacchi da parte di hacker russi è comparso regolarmente sulle pagine dei giornali, e specifiche task force sono state messe in campo per minimizzare le conseguenze e “mettere in sicurezza” le procedure di voto. E si è discusso anche di fake-news, pur in modo forse meno approfondito rispetto a quanto avvenuto in altri Paesi: Angela Merkel è pur sempre, a quanto pare, uno dei bersagli preferiti per notizie create ad arte e fatte circolare su forum e siti magari non ancora mainstream ma estremamente influenti, come Reddit e simili – notizie spesso di provenienza orientale, diciamo.
Per quanto riguarda vere e proprie vicinanze ideologiche e operative, però, bisogna naturalmente rivolgere lo sguardo verso i due estremi dello spettro politico. AfD, ad esempio, non fa eccezione rispetto allo schema classico dei partiti anti-sistema, che di solito hanno fra i loro ingredienti fondamentali un deciso apprezzamento per l’uomo forte e per tendenze nazionaliste, entrambi aspetti incarnati molto efficacemente da Putin. Ma ovviamente non ci si ferma all’apprezzamento: nell’aprile 2016, ad esempio, Marcus Pretzell – allora parlamentare europeo di AfD e compagno della ex-leader Frauke Petry, che attualmente però l’ha seguita fuori dal partito – ha partecipato allo Yalta Economic Forum, un convegno di tre giorni in Crimea organizzato da una fondazione russa molto vicina a Putin, impegnandosi a lavorare attivamente per la fine delle sanzioni alla Russia.
Fine delle sanzioni auspicata anche dalle parti della Linke, la formazione di sinistra, che però sul tema della Russia si posiziona più che altro in funzione di uno storico antiamericanismo – e, volendo, di una certa nostalgia per l’ex-Germania Est.
Credo però ci siano meno contatti operativi diretti fra Russia e partiti antisistema, in Germania, proprio perché si è mai pensato che questi partiti potessero arrivare a giocarsela per il governo, come è invece accaduto per altre elezioni recenti: certo AfD ha ottenuto un risultato spettacolare, ma l’ipotesi che potessero arrivare a governare non è mai stata presa in considerazione. Può essere allora realistico supporre che non si sia insistito più di tanto, da parte russa, per sostenere un fronte che non avrebbe comunque ottenuto la rilevanza di, per dire, il Front National in Francia o i nazionalisti in Austria.
Qual è invece il sentore dell’opinione pubblica tedesca verso l’influenza di Mosca? Più in generale, com’è sentito il tema delle ingerenze in Germania, dopo lo scandalo Nsa delle intercettazioni americane?
Il tema è emerso durante la campagna elettorale, ma va detto che col tempo l’opinione pubblica tedesca, più che di Putin, si è trovata a discutere con preoccupazione di Erdoğan e soprattutto di Trump. Da un lato, i rapporti tesi fra Berlino e Mosca non sono una novità, ma almeno sono stabili e non sono peggiorati: quelli con la Turchia si sono invece quasi interrotti, in particolare nel periodo del referendum costituzionale di Erdoğan, con dichiarazioni estremamente ostili da una parte e dall’altra quasi ogni giorno e l’escalation degli arresti in Turchia di cittadini tedeschi. Naturalmente, quindi, le prime pagine dei giornali sono state occupate dai rapporti con Ankara più che da quelli con Mosca.
E poi è stato il primo anno di Trump, considerato dai tedeschi una minaccia per la stabilità dell’Occidente forse anche più di Putin: tanto che se c’è una contrapposizione su cui la stampa tedesca ha insistito in questi mesi è quella di Merkel con Trump, della “Cancelliera che ha aperto ai migranti” contro “il Presidente che vuole costruire muri e dazi doganali” – narrativa che è stata ripresa anche in occasione dell’incontro di Davos di questi giorni. In questo scenario, Putin certo è un problema, ma mai grande quanto l’attuale inquilino della Casa Bianca.