A settembre, il presidente bielorusso è stato accusato dalla Lituania di crimini contro l’umanità. La denuncia, sporta alla Corte Penale Internazionale, è l’ennesimo sintomo di una crescente ostilità fra i due Paesi.
Aljaksandr Lukašėnka è nel mirino della Corte Penale Internazionale: lo scorso settembre, la Lituania ha mosso un’accusa contro il presidente bielorusso per crimini contro l’umanità, in un clima di tensione crescente tra i due Paesi. Per comprendere pienamente il contenuto, la portata e i possibili sviluppi di quest’azione, è necessario capire in primo luogo che cosa significa rivolgersi alla Corte Penale Internazionale: chi possa farlo, su quali presupposti e che cosa potrebbe risultarne. Questa denuncia risulta essere la punta dell’iceberg di un complesso e conflittuale rapporto che coinvolge non solo la sfera politica e giuridica, ma anche sociale e culturale.
La CPI – che ha sede a L’Aia, nei Paesi Bassi – non è un tribunale qualsiasi: rappresenta l’organo preposto alle indagini e ai processi sui crimini internazionali, in particolare di quattro specie, ovvero i crimini di genocidio, di guerra, contro l’umanità e di aggressione. Non è parte del sistema delle Nazioni Unite e non va confusa con la Corte Internazionale di Giustizia (sebbene con quest’ultima condivida la giurisdizione sovranazionale, quindi il potere di decidere controversie che sorgono e coinvolgono individui che fanno parte di Stati diversi). A differenziare le due Corti è l’oggetto delle accuse prese in esame: mentre la CIG giudica le accuse mosse verso gli Stati, la CPI prende in considerazione esclusivamente gli individui. Per questo motivo la denuncia lituana non è indirizzata alla Bielorussia, ma al suo capo di Stato, di cui il Paese sarebbe invece vittima, secondo le autorità di Vilnius. Questo non significa però che Lukašėnka sia già stato incriminato: il funzionamento del Tribunale è regolato dallo Statuto di Roma, che prevede diversi passaggi per arrivare a un’eventuale imputazione e a un processo.
Il 30 settembre 2024, il Procuratore capo della CPI Karim Ahmad Khan ha ricevuto il rinvio ad approfondimenti sulla condizione dei diritti umani in Bielorussia, firmato da Ewelina Dobrowolska, Ministro della Giustizia lituana. La missiva era chiara e inequivocabile:
“Il Ministro della Giustizia della Repubblica di Lituania, agendo per conto del governo della Repubblica di Lituania, ai sensi degli articoli 13(a) e 14 dello statuto di Roma della Corte, deferisce la situazione nella Repubblica di Bielorussia all’indagine dell’Ufficio del procuratore. Il governo della Repubblica di Lituania ritiene che vi siano ragionevoli motivi per ritenere che, a partire da aprile 2020 e almeno dall’1 maggio 2020, in parte in corso fino ad oggi, e continui, i crimini contro l’umanità – compresa la deportazione, persecuzioni e altri atti disumani – siano stati effettuati contro la popolazione civile della Bielorussia, su richiesta delle Alte autorità politiche bielorusse, forze dell’ordine e militari, e che parte dell’elemento di questi crimini è stato commesso sul territorio della Lituania, rendendo tali reati cronologicamente, territorialmente e materialmente atti a rientrare nella giurisdizione della Corte. È anche ragionevole ritenere che una parte degli elementi di questi crimini sia stata commessa, e continui ad essere commessa, sul territorio di altri Stati parte”.
Ciò a cui Dobrowolska si riferisce con “deportazione, persecuzioni e altri atti disumani” è l’ammassamento forzato di profughi provenienti prevalentemente dall’Africa e dal Medio Oriente verso i confini della Bielorussia, soprattutto Lituania e Polonia; la repressione continua e feroce del dissenso politico, che avrebbe spinto centinaia di migliaia di cittadini a lasciare il Paese e a chiedere asilo politico in Unione Europea; infine, le condizioni di vita degradanti dei prigionieri politici bielorussi. Per contrastare la forte pressione dell’immigrazione irregolare causata dalla Bielorussia, dal 2021 ad oggi il governo lituano ha costruito una barriera di filo spinato che corre lungo 500 dei 679 chilometri di confine tra i due Paesi.
Sviatlana Tsikhanouskaya, avversaria politica di Lukašėnka alle elezioni presidenziali del 2020 e ora leader dissidente in esilio, ha commentato positivamente la richiesta lituana alla CPI:
“Fino ad oggi, circa 300.000 bielorussi sono stati costretti a fuggire, ma il regime non si è fermato qui: i bielorussi all’estero continuano a subire persecuzioni, mentre il dittatore estende le sue politiche oltre i nostri confini, attaccandoci con intimidazioni, molestie giudiziarie e persino procedimenti penali in contumacia”.
Secondo l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, le violazioni dei diritti umani commessi per mano delle autorità bielorusse potrebbero configurare dei crimini contro l’umanità per “la loro natura intenzionalmente diretta, diffusa e sistematica contro la popolazione civile”.
Foto: “Belarusian riot police block participants at an opposition rally in Minsk, Belarus, shortly before parliamentary and local elections, and in the aftermath of the controversial presidential election results which were officially declared in favor of Alexander Lukashenko, November 15, 2020”. Fonte: https://www.hrw.org/modal/108042
Gli articoli 13(a) e 14 dello Statuto di Roma prevedono che la Corte possa esercitare la sua giurisdizione, tra le altre eventualità, qualora uno Stato parte abbia rinviato la questione al Procuratore. La distinzione tra Stati aderenti e non è fondamentale per capire con quali limiti agisca il Tribunale: dei 124 Paesi che hanno ratificato lo Statuto, la Bielorussia non è uno di questi, così come Stati Uniti, Russia e Cina. La legislazione della CPI è limitata agli Stati parte, dunque perché rivolgersi ad essa se si è già a conoscenza di poter essere poco efficaci in una situazione come quella descritta nelle righe di Dobrowolska? La risposta, che implica anche un obiettivo da parte del governo lituano, è duplice: parte dei crimini sopra descritti sarebbero stati commessi in Lituania, Stato membro, e questo, secondo quanto previsto dallo Statuto, darebbe legittimità ad un’azione legale del procuratore contro il presidente bielorusso. Ne potrebbe derivare un mandato di arresto internazionale a suo carico, esattamente come accadde a marzo dell’anno scorso al presidente russo Vladimir Putin e alla Commissaria russa per i diritti dei bambini, Maria Lvova-Belova, per crimini di guerra commessi in Ucraina. L’efficacia sarebbe analoga: qualora un imputato che risieda in uno Stato non parte varchi i confini di uno Stato parte, le autorità di quest’ultimo sarebbero tenute ad attenersi al mandato e ad arrestarlo, per poi portarlo a L’Aia, così da sottoporlo a processo. La misura è naturalmente un deterrente per coloro che sono colpiti da questa misura dallo spostarsi e lasciare il proprio Paese.
Tuttavia, prima che tutto questo possa eventualmente accadere, Karim Khan dovrà accertarsi che sussistano i requisiti per poter procedere con l’apertura di un’investigazione formale. A tal fine, il suo Ufficio sta conducendo un esame preliminare della denuncia lituana, al termine del quale il procuratore deciderà se sia opportuno proseguire o meno con l’investigazione.
Foto: Kharim Khan. Fonte: Policy Maker
Il Paese baltico, già forte sostenitore dell’accusa contro Vladimir Putin, si riconferma sempre più intenzionato ad aumentare le distanze dagli ingombranti vicini russofoni. Paese NATO, è una tra le ex repubbliche URSS che più condannano il passato sovietico, con una profonda inimicizia non solo verso i governi di Russia e Bielorussia, ma anche verso elementi quali la lingua e la cultura russa. Passeggiando per le strade di Vilnius e Kaunas e scambiando due parole con i giovani lituani, non è difficile realizzare quanto aspetti tendenzialmente sottovalutati – ma in realtà fondamentali come la lingua – influiscano sulla percezione e il sistema di valori di ognuno. Se per ingenuità dovesse capitare di paragonare per assonanza la lingua russa a quella lituana, o chiedere a qualcuno di quei ragazzi se il russo lo parlino (come avviene ancora oggi in molte altre ex repubbliche sovietiche), le risposte che si riceverebbero sarebbero più gelate del vento che soffia sul loro mare in inverno.
Beatrice Scavino