Alyaksandr Lukashenka, alla guida del Paese dal 1994, si prepara al settimo mandato presidenziale. Nonostante la parvenza di pluralismo democratico, in questa tornata elettorale tutto si svolge all’insegna di un clima autoritario, nell’ombra della stessa repressione che fece seguito alle elezioni del 2020. Non si prevedono grandi contestazioni di piazza all’indomani della tornata.
Il 26 gennaio 2025 i cittadini bielorussi saranno chiamati alle urne per eleggere il presidente della Repubblica. Nessuno si aspetta un risultato diverso dal consueto: Alyaksandr Lukashenka, alla guida del Paese dal 1994, si prepara a consolidare ulteriormente il proprio potere con un settimo mandato presidenziale. L’appuntamento elettorale di quest’anno si colloca nell’ombra degli eventi delle elezioni del 2020, quando un’ondata di proteste di massa scosse il Paese, seguita da una brutale repressione che soffocò sul nascere ogni tentativo di cambiamento.
Molti di coloro che incarnavano le speranze dei manifestanti vivono oggi lontani dalla Bielorussia. Sviatlana Tsikhanouskaya, ex candidata alle presidenziali e principale volto della resistenza politica, è in esilio, così come il resto dell’opposizione. Intanto, oltre 1.300 prigionieri politici, un numero che potrebbe essere significativamente più alto, restano in carcere. La Bielorussia di oggi è infatti un Paese in cui non c’è spazio per il dissenso.
La data delle elezioni, annunciata l’ottobre scorso dalla Camera dei Rappresentati, è stata fissata con sei mesi di anticipo rispetto alla naturale scadenza del mandato di Lukashenka. Secondo quanto dichiarato dalla Commissione Elettorale Centrale (CEC), questa scelta è stata presa per consentire al nuovo presidente di avere il tempo necessario per elaborare il prossimo piano quinquennale, strumento fondamentale nella pianificazione economica del Paese. In realtà, questa decisione sembra piuttosto mirata a prevenire qualsiasi forma di mobilitazione popolare simile a quella del 2020.
La stretta repressiva in vista delle elezioni
A partire dallo scorso gennaio, la macchina del regime ha cominciato a muovere i suoi ingranaggi per non lasciare nulla al caso. Lukashenka ha firmato una legge che gli garantisce l’immunità permanente dai procedimenti penali e impedisce ai leader dell’opposizione che vivono in esilio di candidarsi alle elezioni presidenziali. Questa legge teoricamente si applica a qualsiasi ex presidente e ai membri della sua famiglia. Secondo il testo della legge, il presidente, se dovesse lasciare il potere, “non potrà essere ritenuto responsabile delle azioni commesse in relazione all’esercizio dei suoi poteri presidenziali”. Non solo: la legge impone restrizioni sui requisiti per i candidati presidenziali, stabilendo che possono candidarsi solo i cittadini bielorussi che risiedono stabilmente nel Paese da almeno 20 anni e non hanno mai avuto un permesso di soggiorno in un altro Paese.
Parallelamente, il governo ha intensificato le operazioni repressive. Secondo il centro per i diritti umani Viasna, nel solo mese di novembre oltre 100 persone sono state arrestate con l’accusa di complottare per prendere il potere, un reato che comporta pene fino a 15 anni di carcere. Questa ondata di arresti, che ha coinvolto diverse città bielorusse, sembra rappresentare un’operazione volta ad intimidire la popolazione in vista del voto.
La stretta riguarda anche i cittadini bielorussi che vivono all’estero, essenzialmente esclusi dal voto. Come annunciato da Igor Karpenko, presidente della CEC, non sono stati allestiti seggi elettorali al di fuori dei confini nazionali, con la giustificazione della mancanza di sicurezza e della riduzione del personale diplomatico. La decisione lascia una sola opzione: recarsi fisicamente in Bielorussia per votare in uno dei sei seggi designati. Una misura che sembra studiata per tagliare fuori l’opposizione.
Dopo i traumatici eventi del 2020, infatti, il Paese ha vissuto un’emigrazione senza precedenti, con un numero compreso tra le 200.000 e le 500.000 persone che hanno scelto di trasferirsi in paesi come Lituania, Polonia, Georgia e Germania. Tra queste persone c’è la stessa Tsikhanouskaya, autoproclamatasi “leader nazionale” ad interim dalla Lituania, dove ha istituito il “Consiglio di Coordinamento per il Trasferimento del Potere”. Questa iniziativa l’ha resa una figura ricercata dalle autorità in Bielorussia.
Anche i social network sono finiti nel mirino del regime. Infatti, durante le proteste del 2020, Telegram si era rivelato uno strumento fondamentale per l’organizzazione e la diffusione di informazioni tra i manifestanti. Per questo motivo le autorità stanno cercando di limitare l’uso dei social. Già il 9 gennaio diverse piattaforme tra cui YouTube, Discord, TikTok e lo stesso Telegram hanno subito rallentamenti e interruzioni. La strategia del governo è chiara: ridurre l’accesso a questi canali digitali per ostacolare eventuali proteste e mantenere il controllo della situazione. Inoltre, sarebbe stato paventato un blocco completo di Internet in caso di disordini politici durante le elezioni.
Un altro evento sospetto avvenuto verosimilmente in vista delle elezioni, ma risalente al luglio scorso, è che Lukashenka ha graziato oltre 225 prigionieri politici, gesto definito “umanitario” da coloro che sostengono il regime. I suoi precedenti, però, non lasciano ben sperare. Questa, infatti, non è la prima volta che Lukashenka cerca di guadagnare punti agli occhi dell’Occidente a pochi mesi dalle elezioni. Nel 2015, poco prima delle elezioni, il rilascio di prigionieri politici aveva spinto l’UE a revocare le sanzioni imposte nel 2010. Anche oggi Lukashenka parrebbe replicare questa tattica, offrendo concessioni simboliche per allentare la pressione internazionale senza apportare alcun cambiamento reale al regime.
Gli altri candidati
La CEC ha approvato cinque candidati per le elezioni: Oleg Gaidukevich, Sergei Syrankov, Anna Kanapatskaya, Alexander Khizhnyak e, ovviamente, Alyaksandr Lukashenka.
Oleg Gaidukevich, leader del Partito Liberal-Democratico di Bielorussia (LDPB) e deputato della Camera dei Rappresentanti, è una figura nota per il suo sostegno incondizionato a Lukashenka. Nel 2020, Gaidukevich si ritirò dalle elezioni presidenziali a favore dell’attuale presidente, consolidando la sua reputazione di alleato leale. Con una retorica patriottica e anti-occidentale, ha dichiarato che la sua candidatura è volta a difendere la sovranità della Bielorussia e a respingere l’influenza occidentale. Non sorprende che il suo LDPB promuova una stretta cooperazione con Mosca, arrivando a sostenere un’unione tra Bielorussia e Russia. È stato inoltre sottoposto a sanzioni da parte di UE, USA e Regno Unito per il suo appoggio al regime durante le proteste del 2020. Gaidukevich incarna perfettamente il candidato “di sistema”, utile al regime per veicolare un’immagine di pluralismo controllato.
Anna Kanopatskaya è una ex parlamentare, già candidata alle presidenziali del 2020. Sebbene in passato fosse associata all’opposizione democratica, oggi è accusata dagli oppositori in esilio di essere parte di un’opposizione “controllata” dal regime. Durante le scorse elezioni, ha evitato di attaccare direttamente Lukashenka, concentrandosi invece sulle critiche contro Sviatlana Tsikhanouskaya, leader dell’opposizione in esilio. Questo comportamento ha alimentato dubbi sulla sua reale indipendenza politica. Tuttavia, Kanopatskaya è la candidata che, con un’agenda più liberalista e foriera di cambiamento, si è spesa maggiormente sulla necessità di maggiori privatizzazioni, di limitare il potere centrale, di salvaguardare i diritti umani e infine di rafforzare i legami con l’Occidente, essendo in passato stata critica dell’eccessiva dipendenza bielorussa da Mosca.
Alexander Khizhnyak è il leader del Partito Repubblicano del Lavoro e della Giustizia (RPTS), che per la prima volta in trent’anni presenta un candidato alla presidenza. Oltre al suo ruolo politico, Khizhnyak è attivo nel Consiglio comunale di Minsk. Si propone come un candidato moderato, puntando su un programma che privilegia le questioni sociali ed economiche. Tra le sue priorità figurano l’accesso universale alla sanità e politiche a sostegno delle famiglie. Assieme a Gaidukevich viene considerato come più vicino all’establishment.
Infine Sergei Syrankov, leader del Partito Comunista di Bielorussia (KPB) e primo candidato comunista alle presidenziali, ha incentrato la sua campagna su ideali socialisti (e sulla vicinanza a Mosca), ma, come afferma egli stesso, l’ha svolta nel segno del motto “Non al posto di Lukashenko, ma insieme al presidente”.
Sebbene questa lista sembri suggerire una competizione democratica, in realtà nessuno di questi candidati sembra rappresentare una vera sfida al dominio di Lukashenka.
Un futuro congelato
All’alba della campagna elettorale, Lukashenka ha dichiarato: “Non mi aggrappo al potere. Farò tutto il possibile per trasferirlo in modo tranquillo e pacifico alla nuova generazione”. Il regime, tuttavia, non mostra segni di cedimento, e l’esito delle urne sembra già scritto. Nonostante il malcontento interno alimentato dalla crisi economica, dalla repressione dei diritti e dal timore di un coinvolgimento diretto della Bielorussia nella guerra in Ucraina al fianco della Russia, i servizi di sicurezza stringono il Paese in una morsa inamovibile. Un ruolo chiave in questa situazione continua a giocarlo appunto Mosca, che ha un forte interesse nel vedere Lukashenka confermato al potere, essendo la Bielorussia il suo più solido alleato in Europa.
Con ogni probabilità, Lukashenka si appresta a ottenere il suo settimo mandato. Il dubbio che rimane è se il Paese sarà scosso da nuove proteste o se il silenzio prevarrà, soprattutto dopo che Sviatlana Tsikhanouskaya ha invitato i suoi connazionali a non scendere in piazza per evitare ulteriori repressioni e arresti. Per il momento, la Bielorussia sembra destinata a restare un Paese bloccato nel tempo e il suo futuro resta congelato nelle mani di chi detiene il potere.
Erika Martini