La crisi economica causata dall’epidemia di Covid-19 è un problema serio per la Russia, ma è molto presto per diagnosticare scossoni politici. L’evolversi della crisi si gioca tra le minori entrate, dovute al crollo del prezzo del petrolio, e le ingenti spese necessarie a sostenere il lockdown e ad avviare la ripartenza dell’economia. Le riserve valutarie sono consistenti: tutto dipende da come e quando verranno spese.
Prima dell’arrivo del virus l’economia russa era già in assetto di guerra. Si trattava anzi di una delle economie meglio posizionate nell’ipotesi di una nuova crisi finanziaria: le sanzioni limitano le ripercussioni sulla Russia dell’andamento dei mercati occidentali, e consistenti riserve valutarie garantiscono la tenuta del Paese in caso di prolungata depressione economica. Il costo di questa politica è però quello di una crescita più bassa e un tasso di disoccupazione più alto di quanto potrebbero essere. Cambiare gradualmente strategia era proprio lo scopo del nuovo governo, formato a gennaio con l’obiettivo di riversare una parte delle riserve nell’economia reale per stimolarne la crescita. L’arrivo dell’epidemia ha cambiato repentinamente l’ordine di grandezza di questi problemi: le entrate si sono inaridite con la caduta del prezzo del petrolio, mentre la necessità di spendere si è impennata di colpo.
Meno petrolio
L’inizio della pandemia ha coinciso con l’avvio dello scontro con l’Arabia Saudita sui prezzi del petrolio, che è una voce di entrate cruciale per il bilancio dello Stato russo. A scatenare il conflitto è stata la richiesta saudita di avviare un taglio congiunto della produzione per controbilanciare una domanda già in calo prima del manifestarsi del virus, alla quale la Russia ha opposto un rifiuto; a motivarlo, l’assenza degli Stati Uniti, che non avrebbero partecipato al taglio benché siano ormai diventati il primo produttore globale grazie al boom dello shale oil, il petrolio estratto da frammenti di rocce di scisto. Dietro la scelta della leadership russa c’è la considerazione che il budget statale avrebbe potuto reggere l’urto di prezzi bassi. Anche l’Arabia Saudita, che ha materialmente scatenato lo scontro aumentando la propria produzione, avrebbe potuto contare sulle sue vaste riserve valutarie per sostenerne il costo. Lo shale oil americano al contrario, pesantemente indebitato, sarebbe fallito rapidamente: una volta tolto il terzo incomodo, Riyad e Mosca sarebbero tornate più facilmente in accordo.
La pandemia ha però cambiato radicalmente l’ordine di grandezza del problema. Se prima l’anello debole era lo shale oil americano e ad essere in posizione di forza era la Russia, il blocco delle industrie di buona parte del pianeta ha fatto crollare quella che prima era solo una domanda in calo. Con il petrolio ben più basso di quanto previsto i fallimenti nello shale oil americano si sono susseguiti, ma di colpo anche la posizione russa si è fatta meno solida di quella saudita. Se infatti il budget russo può sostenere prezzi bassi più a lungo di quello saudita, quando l’ipotesi diventa quella di bloccare completamente la produzione sono i pozzi russi, più maturi e difficili da operare, a presentare i maggiori problemi perché, a differenza di quelli sauditi, non è chiaro se possano essere riattivati dopo un blocco totale.
L’accordo raggiunto il 12 aprile riflette questa dinamica ed ha quindi condizioni più sfavorevoli per Mosca di quelle presentate dai Sauditi prima di questo breve conflitto dei prezzi. È un accordo che risponde all’urgenza posta dal rapido colmarsi dei depositi, ma che si basa sulla domanda “normale”, al netto della pandemia. Questo perché ci si attende che la situazione torni gradualmente alla normalità nei prossimi trimestri, ma significa anche che ci vorrà del tempo prima che gli effetti del recente crollo siano riassorbiti.
Più spesa
Quasi il 60% dei russi non dispone di risparmi: questo rende la stretta osservanza della quarantena più difficile e costosa, in aggiunta alla pesante crisi economica messa in moto dall’epidemia. D’altra parte, nel complesso la Russia ha abbastanza riserve valutarie per ripagare completamente i propri debiti: ad inizio aprile le riserve ammontavano a 110 miliardi $ in più dell’intero debito estero. Il governo è anche in grado di sostenere la popolazione durante la quarantena: il National Wealth Fund, che contiene circa 150 miliardi $, può essere speso a questo scopo. Il problema riguarda il come e quanto velocemente spendere questi soldi, dal momento che, una volta spesi, per la Russia sarebbe molto difficile rifinanziarsi sui mercati internazionali, mentre l’andamento del prezzo del petrolio non garantisce un rapido ritorno ai livelli di entrate pre-crisi.
Prima dello scoppio della pandemia, lo scopo del National Wealth Fund era proprio quello di essere speso progressivamente per stimolare l’economia nazionale, perlopiù isolata dai ricchi mercati finanziari occidentali. Le grandi riserve valutarie, faticosamente accumulate, sono un elemento fondamentale della politica di Putin e dei governi che si sono succeduti, perché garantiscono un margine di indipendenza di cui non dispongono invece quei paesi che devono fronteggiare la necessità urgente di indebitarsi. Questo a spese della crescita economica che, come ricorda il fatto che la maggioranza dei russi non disponga di risparmi, potrebbe essere maggiore.
Per ora le risorse mobilitate dal governo per far fronte alla crisi sono relativamente limitate. Si tratta di fondi pari a circa il 2,8% del PIL, 6,5% contando anche le risorse usate per coprire il deficit dovuto al calo del prezzo del petrolio. Questi numeri contrastano con il 10-15% del PIL messo in campo dai paesi più sviluppati: questo segnala un approccio molto prudente del governo centrale, che probabilmente ritiene di dover sostenere l’economia ben oltre la fase del lockdown e della ripartenza, fino al ritorno del prezzo del petrolio a livelli che permettano al bilancio centrale di sostentarsi. Per contro, la comunità degli economisti russi si è espressa largamente per misure più espansive. Perfino Aleksej Kudrin, Presidente della Corte dei Conti e noto sostenitore di una linea di prudenza economica si è espresso per misure che raggiungano almeno il 7% del PIL, mentre ipotesi più espansive suggeriscono l’esaurimento completo del National Wealth Fund, che è pari a circa il 9% del PIL, in aggiunta al deficit legato al prezzo del petrolio, incluso invece da Kudrin nel proprio computo.
L’approccio prudente adottato finora dal governo garantisce una maggiore durata delle riserve, ma può significare non solo grossi problemi economici, specialmente per le piccole e medie imprese, ma anche la minore sostenibilità della quarantena. Al di fuori delle grandi città, le autorità locali infatti non hanno la forza né il denaro per imporre un lockdown duraturo a quella fetta rilevante della popolazione che non dispone di risparmi. Più il blocco si protrae, più è probabile che le autorità locali adottino una strategia di quarantena “informale”, osservata sulla carta ma la cui violazione è nei fatti permessa per quei settori a rischio sopravvivenza.
Se l’epidemia si diffondesse dalle grandi città – dove è finora sostanzialmente confinata – al resto del paese, il costo di mantenere una vera quarantena si alzerebbe, costringendo il governo a spendere più rapidamente per contenere il diffondersi del contagio.
Stretta tra il crollo del prezzo del petrolio e l’improvvisa necessità di aumentare la spesa, la Russia può contare solo sulle sue ingenti riserve finanziarie: tutto si gioca su come e a che ritmo queste verranno spese. Il 30 aprile il sindaco di Mosca Sobyanin ha dichiarato che la capitale avrebbe raggiunto il picco del contagio e che un allentamento delle misure di quarantena sarebbe in discussione per metà maggio. Con il picco di contagi nelle regioni, atteso con due o tre settimane di ritardo rispetto alla capitale, le pressioni per un aumento del ritmo di spesa del governo centrale potrebbero farsi più forti nelle prossime settimane.
Giulio Benedetti