Gli effetti del COVID-19 e dello shock energetico
“Può, un pangolino ammalato a Wuhan, provocare una crisi economica mondiale di dimensioni epocali?” Mutuando il titolo di una celebre conferenza tenuta nel 1979 dal matematico Edward Lorenz – pioniere della teoria del caos – la risposta è evidentemente positiva.
Quella del raro mammifero è difatti la specie maggiormente indiziata di aver consentito il “salto” necessario al nuovo coronavirus (ribattezzato COVID-19) per contagiare l’uomo. La risposta globale ha seguito una direttrice pressoché inalterata nei suoi elementi fondamentali: a fronte di una iniziale sottovalutazione del rischio, si è quindi cercato di inclinare l’impennata dei contagi con un confinamento internazionale simultaneo di proporzioni inedite nella storia dell’umanità (quantomeno in quella conosciuta); infine, complici alcune dibattute teorie sull’indebolimento del virus nonché l’esigenza di far ripartire i motori economici nazionali, si è provveduto ad allentare il regime di lockdown all’insegna della necessità di “convivere con il coronavirus”.
La Russia si inserisce a pieno titolo nella suddetta narrazione, avendo inoltre evidenziato alcune crepe nel funzionamento del sistema federale – in maniera peraltro meno eclatante rispetto a quanto avvenuto in altri ordinamenti federali, in primis Stati Uniti e Brasile. Pur rimanendo l’aumento dei casi giornalieri su ritmi sostenuti (poco meno di 9.000 al momento in cui si scrive), il peggio sembra passato, e a Mosca – epicentro della pandemia nella Federazione – il sindaco Sobjanin ha annunciato una consistente rimozione delle misure restrittive, mentre il Cremlino ha programmato per il 1° luglio l’atteso referendum-day in cui si voterà sul pacchetto di emendamenti costituzionali.
Nell’acme della pandemia, nelle sale dei bottoni moscovite ad essere osservata con apprensione non era però solo la curva dell’andamento pandemico, ma anche quella relativa ai prezzi del petrolio – scivolato ai minimi storici a fine aprile (addirittura in territorio negativo i futures di maggio a causa della sovrapproduzione e della carenza di siti di stoccaggio), con le immaginabili ripercussioni per un Paese che dal settore energetico dipende per circa un quarto del PIL e per più della metà quanto all’export complessivo. Dopo essere sprofondato a poco più di 10 $ al barile, il benchmark WTI (grossomodo indicativo dell’andamento degli altri prezzi, tra cui il benchmark russo Urals) ha intrapreso una lenta risalita che lo ha portato ad essere scambiato sopra i 37 $ a metà giugno.
La “tempesta perfetta” provocata dallo shock pandemico e dal crollo dei prezzi del greggio – oltreché, per induzione, di quelli del gas naturale – ha messo a dura prova l’economia russa. Ad aprile, il PIL è calato del 28% nominale rispetto allo scorso anno, e nel secondo quadrimestre la decrescita è stimata intorno al 10%. D’altra parte, la disoccupazione è aumentata di un sonoro 30% dall’inizio della pandemia, equivalenti a 1,7 milioni di russi rimasti senza lavoro. Il dato ufficiale, beninteso, non tiene conto di quanti sono occupati a vario titolo nella vasta economia informale (che si stima equivalga al 30-40% nel PIL nazionale). Il Governo federale ha predisposto fondi per erogare prestiti a tasso zero alle imprese, così da garantire che almeno una parte del salario mensile possa essere corrisposta agli impiegati inoperosi. La misura, tuttavia, ha un campo di applicazione meno vasto di quanto ci si potrebbe aspettare: a potervi accedere sono difatti solo le imprese operanti in una “categoria fortemente colpita” (principalmente un flusso di cassa verso imprese statali, non di rado monopoliste), e la somma massima erogabile per capita ammonta a circa 12.000 rubli al mese (poco più di 150 euro al cambio attuale, ossia il salario minimo).
A ciò si aggiungono le previsioni non esattamente rosee della Banca Centrale. Secondo l’istituto guidato da Ėl’vira Nabiullina, si prefigura una preoccupante erosione del 20% del reddito medio disponibile nel secondo semestre rispetto all’anno scorso. Per far fronte alla situazione di eccezionalità, la massima authority monetaria russa ha indicato di poter ridurre il tasso di riferimento (ossia il tasso d’interesse applicato sui prestiti alle banche nazionali) di 100 punti base (1%) – un’entità inedita dai tempi della caduta dell’URSS. Differentemente dalla BCE o dalla FED, i cui tassi sono a zero, la Banca centrale russa ha difatti una “potenza di stimolo” maggiore, dovuta ad un tasso attualmente fermo al 5,5%. Ciononostante, secondo alcuni osservatori – tra cui Vladimir Tichomirov, capo economista della principale società-broker moscovita (BCS Global Markets) – il taglio avrà effetti “assai marginali“, dal momento che “non ci sono valide possibilità che la popolazione assuma maggior debito, in ragione della crescita limitata del reddito reale“, che si ripercuote inevitabilmente su una bassa domanda interna – laddove la domanda estera rimane condizionata dalle sanzioni occidentali.
A destare preoccupazione sono anche le finanze regionali, che necessiteranno verosimilmente dell’intervento dello Stato centrale per far almeno temporaneamente fronte ad un deficit impennatosi vertiginosamente nelle ultime settimane.
La Russia ha finora adottato una politica dissimile da quella degli Stati dell’Unione Europea e degli USA – che da subito hanno stimolato artificialmente l’economia tramite un’iniezione di liquidità sotto forma di sussidi a lavoratori ed imprese – mantenendosi piuttosto su una linea prudentemente conservatrice. Questa sembra aver pagato, almeno sinora, dato che il rublo è rimasto sostanzialmente stabile (dopo una svalutazione del 10% in concomitanza con lo shock petrolifero). Tale atteggiamento conservatore si palesa nella stretta oculatezza con cui si è attinto al Fondo Nazionale del Welfare – dotato di 140 miliardi € ed istituito per compensare periodi di “magra” caratterizzati da prezzi bassi di greggio a medio-lungo termine.
Se l’avvenire è più che mai oscuro, c’è però una certezza: la ripresa non sarà a forma di “V”.
A sostenerlo è Aleksandr Morozov, capo dell’ufficio studi della Banca centrale moscovita, che prevede “un processo lungo e pesante” per tornare all’economia pre-crisi – nonché una delle sfide più impegnative per Putin.