Sin dalla fine della guerra civile scoppiata nel 1992, che ha contrapposto i legittimisti governativi e l’opposizione islamista, il Tagikistan ha assistito alla conferma autoritaria di Emomali Rahmon, 68 anni, alla ricerca (scontata) dell’ennesimo mandato settennale il prossimo 11 ottobre. Ma l’età impone anche riflessioni su una futura successione…
L’ultima elezione presidenziale in Tagikistan si è tenuta il 6 novembre 2013 con un plebiscito (l’83,92%) a favore del presidente Emomali Rahmon, allora al quarto mandato. Rahmon è al potere dal 1992 e nessuna elezione nella storia indipendente del Tagikistan è stata giudicata libera ed equa dagli osservatori internazionali. Pochi i dubbi, dunque, sull’esito di elezioni che appaiono quantomai scontate. Rahmon, ex-imprenditore del cotone, “apparatchik” sovietico nonché eroe della guerra civile, in ventotto anni al potere ha accentrato progressivamente il potere attorno alla sua figura e alla stretta cerchia dinastica. La creatura politica del presidente, il Partito Democratico Popolare del Tagikistan, controlla 47 dei 63 seggi dell’Assemblea dei Rappresentanti, la camera bassa del Parlamento del Paese, e gode dell’assoluta obbedienza dei partiti sopravvissuti alle numerose epurazioni operate contro dissidenti, media non allineati ed esponenti della società civile.
A settembre, la Commissione elettorale centrale, organismo teoricamente indipendente ma controllato dai fedelissimi del Presidente, ha registrato la candidatura di cinque sfidanti: Rustam Latifzoda del Partito Agrario; Abduhalim Ghafforov del Partito Socialista; Miroj Abdulloev del Partito Comunista; e Rustam Rahmatzoda del Partito delle Riforme Economiche. Un numero all’apparenza accettabile, ma assolutamente strumentale. Tutti e cinque i partiti e i candidati sostengono apertamente posizioni filogovernative e non dispongono del prestigio e della macchina elettorale per sperare in un risultato accettabile. Piu prosaicamente, se non si tratta di uomini del presidente, questi può contare sulla loro assoluta fiducia.
L’ultima forza politica indipendente e in grado di canalizzare una percentuale rilevante del voto popolare, quindi unica considerevole opposizione è stata sostanzialmente allontanata dal Parlamento. Il “Partito della Rinascita Islamica“, espressione della corrente islamista moderata approdato in Parlamento in seguito a un accordo siglato al termine della guerra civile, è stato spazzato via in seguito a una raffica di arresti, intimidazioni e omicidi dai contorni oscuri. Unica colpa quella di fare opposizione, di contestare la deriva autoritaria intrapresa e le draconiane misure antireligiose, utili ad indebolire l’appeal organizzativo dell’Islam tagiko. Nel 2015 il partito è stato bandito, dopo essere stato designato come organizzazione terroristica dalla Corte Suprema. Due dei leader del partito sono stati condannati all’ergastolo dalla stessa Corte, dopo essere stati accusati di aver supportato attivamente un presunto fallito tentativo di colpo di Stato, guidato dall’ex viceministro della Difesa Abduhalim Nazarzoda, ucciso insieme a diverse dozzine di suoi sostenitori mentre tentava di assumere con la forza il controllo di una stazione di polizia. Accuse negate dagli attivisti del partito, costretti all’esilio in Europa, ma che si inseriscono in quella correlazione tra Islam e terrorismo che nutre di non pochi consensi a livello internazionale.
Salvo sorprese, Rahmon conquisterà agevolmente l’ennesimo mandato settennale, ma data l’età avanzata, seguendo l’esempio dell’emulo kazako Nursultan Nazarbaev, potrebbe non servire per intero essendosi assicurato di conservare il potere all’interno della cerchia famigliare. Nei suoi 28 anni come presidente, Rahmon ha compiuto enormi sforzi per legare la figura politica alla pacificazione raggiunta in seguito alla guerra intestina, legittimandosi come perno di stabilità del Paese, garante dalle infiltrazioni dell’islamismo militante che preme dal limitrofo Afghanistan. Stabilità per altro discutibile, visti i numerosi episodi di terrorismo jihadista succedutisi nel Paese. Nonostante formalmente si tratti di una democrazia, Rahmon agisce da incontestato imperatore con una vasta corte e una famiglia numerosa e influente, un ceto di fedelissimi che si allarga fino a controllare tutte le leve politiche ed economiche del piccolo paese centroasiatico con l’ordinario seguito di corruzione, malversazione e scandali tempestivamente taciuti.
Prossimo in linea di successione, il figlio maggiore Rustam, già maggiore generale dell’esercito, sindaco della capitale Dušanbe e Presidente del Majlisi Milli (Assemblea nazionale), la camera alta del Parlamento tagico. A completare il quadro, un referendum del 2016 ha abbassato l’età per presentarsi alle elezioni la presidenza da 35 a 30 anni, oltre a rimuovere il limite di mandato per Rahmon. La perpetuazione di questa casta politica, l’assenza di una società civile opportunamente repressa, l’endemicità di fenomeni come la corruzione, il nepotismo la scomparsa di un’opposizione ridotta a più miti consigli e la resistenza di arcaismi economici frutto della mancata transizione economica condannano il paese a una crisi di liquidità perenne mitigata solamente dalle rimesse inviate nel paese dai milioni di immigrati tagiki residenti in Russia, nonché dagli investimenti del Cremlino, che insiste nel considerare l’area di sua pertinenza geopolitica.
La pandemia di coronavirus, inoltre, ha impedito sia ai lavoratori migranti tagiki ancora in Russia e in Kazakistan di inviare rimesse in patria e rallentato il flusso dei frontalieri e degli stagionali. Se si può prevedere l’effetto che la pandemia avrà sulle già dismesse casse del paese, l’incertezza più nera resta sull’entità del contagio nel Paese. Mentre le altre nazioni dell’Asia centrale hanno iniziato a registrare casi a marzo, il Tagikistan ha inizialmente fermamente negato che il virus fosse entrato nel paese per poi, di fronte alle accuse internazionali, finalmente iniziare a segnalare casi; all’8 ottobre, le autorità tagike hanno ufficialmente registrato 10.055 casi di COVID-19 e 78 decessi.
A differenza dei più dinamici vicini che recentemente hanno conosciuto una ventata di riforme, seppure flebili, che fanno ben sperare, i prossimi sette anni del Tagikistan, con quasi assoluta certezza, si caratterizzeranno per il solito immobilismo politico e il mantenimento del basso profilo istituzionale. Una staticità che cozza con la rinnovata intensità con cui le grandi potenze prendono di mira il Paese, perno vitale di quell’Heartland di mackinderiana memoria. La presenza in loco di importanti basi militari russe (201° divisione fucilieri stanziata poca distanza dalla capitale e la stazione di sorveglianza spaziale russa di Nurak, nell’ovest del paese) garantiscono il Paese da colpi di mano di potenze straniere e da infiltrazione dal poroso confine afghano; il montare dell’influenza di Pechino sull’onda lunga dell’ambiziosa “Via della Seta” si presenta con investimenti infrastrutturali, ma anche con la presenza sempre più invasiva (e invisa) di immigrati cinesi e conseguente trappola del debito; l’assertività recente di Washington, impegnata in un puntellamento paziente delle frontiere cinesi. Tutti questi fattori rendono il Tagikistan un rinnovato palcoscenico ideale di quel “Grande Gioco” ottocentesco. Corsi e ricorsi storici…e geopolitici.