La posizione scomoda della Georgia, stretta tra vicini belligeranti e impossibilitata pure a condurre una reale strategia di mediazione. Il timore di interventi esterni da parte dei potenti vicini.
La geografia è destino. Per la Georgia, consiste nell’essere al centro di un’immaginaria croce ai cui estremi si trovano la Turchia (ovest), la Russia (nord), l’Azerbaigian (est) e l’Armenia (sud).
Poi la geografia economica, con la regione di Adjara, sul Mar Nero, largamente ospitante investimenti turchi. Infine, la geografia umana: la Georgia è sede di ampie minoranze armene e azere, particolarmente concentrate, rispettivamente, nella regione meridionale di Samtskhe-Javakheti e in quella sud-orientale di Kvemo Kartli.
A complicare il quadro ci si mette pure la geopolitica, attinente anche alla natura delle relazioni fra i quattro poli. Da ovest: Russia e Turchia in competizione, Azerbaigian e Armenia in guerra, Turchia e Azerbaigian alleati, Russia e Armenia alleati (nominali?). In mezzo, la Georgia: corridoio di transito, nel bene e nel male. Isola di stabilità nel Caucaso del Sud, la Georgia mantiene relazioni cordiali con tutti i poli della croce di cui è centro, tranne che col nord russo, con il quale è stata in guerra nel 2008. Da quel conflitto sono sorti due dei famosi Stati de facto (Abkhazia e Ossezia del Sud) laddove prima batteva bandiera georgiana.
Se la geografia è destino, dunque, il destino della Georgia è indissolubilmente legato a quello della croce sud-caucasica nel suo intero, e la neutralità – intesa come assenza di coinvolgimento – non è un’opzione. È per questo che l’unico scenario accettabile per la Georgia è l’assenza di conflitti nell’area. E se sperare nella pace e nella normalizzazione delle relazioni fra tutti gli attori in causa è impossibile, tifare per una de-escalation e stare in disparte sono le uniche alternative.
Il conflitto del Nagorno-Karabakh dura da tre decenni, che lo si voglia considerare in alcune fasi “congelato”, o meno. Ma in questi tre decenni, conclusasi la prima guerra del Nagorno-Karabakh, il tacere delle armi è stato sufficiente perché la Georgia potesse sviluppare con relativa serenità una politica interna ed estera “pacifica” – interrotta soltanto dal già citato scontro con la Russia, e da questo o quell’avvicendamento domestico.
La Georgia, comunque, nonostante l’enorme impatto che qualsiasi esito del conflitto avrebbe su di essa, non ha mai ricoperto un ruolo centrale nelle negoziazioni, né ha mai servito come mediatore. È infatti una centralità passiva, quella georgiana, dove il suo essere cuore della croce sud-caucasica non significa ipso facto capacità di esercitare pressioni su alcuno degli attori in gioco: alla Georgia mancano il peso politico e la deterrenza militare per imporre la propria volontà.
Dunque, per la Georgia, si tratta di essere attraversata da ciò che gli altri intendono farvi passare, e di sperare che si tratti soltanto di capitali, infrastrutture energetiche, reti di trasporti o, tutt’al più, aiuti umanitari.
È così che la presidente Salome Zurabishvili, subito dopo il rinnovarsi del conflitto guerreggiato fra Armenia e Azerbaigian, ha convocato il Consiglio Nazionale di Sicurezza, che ha stabilito il divieto assoluto di transito di aiuti militari sul territorio georgiano, spazio aereo incluso. L’idea proposta a fine settembre dal primo ministro Giorgi Gakharia di far di Tbilisi la sede per i negoziati del Gruppo di Minsk è stata rigettata da tutte le parti.
Inoltre, tutte le forze politiche hanno convenuto sulla posizione di neutralità della Georgia – qui intesa come assenza di propensione politica verso l’una o l’altra parte belligerante. Unica voce fuori dal coro, Misha Saakhashvili – ex presidente georgiano e candidato premier per la coalizione d’opposizione alle prossime parlamentari, che si terranno il 31 ottobre – il quale ha preso posizione dichiarando che “il Karabakh è Azerbaigian”.
I problemi che la Georgia potrebbe trovarsi ad affrontare a causa del conflitto nel Nagorno-Karabakh sono di varia natura.
Innanzitutto, di ordine pubblico: come già accaduto con gli armeni che a Javakhk hanno bloccato l’autostrada con la Turchia, accusando infondatamente che da lì stessero transitando cargo militari per l’Azerbaigian. Esiste anche la possibilità che membri delle minoranze si scontrino fra di loro dando luogo a disordini, ma una tradizione di convivenza pacifica all’interno del territorio georgiano fa sperare che questa ipotesi sia poco probabile.
Di natura economica: con un conflitto alle porte, si potrebbe assistere a un crollo degli investimenti stranieri, per i timori d’instabilità dell’area. Inoltre la forte dipendenza energetica della Georgia dall’Azerbaigian renderebbe Tbilisi suscettibile di qualsiasi interruzione di rifornimenti, per non parlare del danno in termini di mancati introiti che il Paese subirebbe nella sua qualità di territorio di transito.
Di natura politica: con le elezioni alle porte, e la gestione della pandemia che, al contrario di quanto registrato durante “la prima ondata”, sta suscitando molte critiche nei confronti del governo, le sopracitate implicazioni economiche del conflitto sarebbero ulteriore motivo di biasimo per l’esecutivo di Gakharia. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, qualsiasi passo falso diplomatico da parte di Tbilisi – sia esso reale, o una creazione mediatica – metterebbe a repentaglio i rapporti con l’uno o l’altro vicino di casa, privando la Georgia di un suo asset fondamentale e costringendola a dover ridipingere interamente la propria politica estera.
Se dunque un’intensificazione del conflitto può far pensare cinicamente alle conseguenze elettorali che avrebbe sulla maggioranza di governo georgiana, è anche vero che di fronte a un impatto devastante sulla sicurezza nazionale neppure il politico più spregiudicato potrebbe mettere avanti le proprie ragioni di partito.
Esaminiamo, allora, il peggiore dei casi possibili. Ovvero lo scenario nel quale, essendosi inasprito lo scontro fra le forze belligeranti, Russia o Turchia (o entrambe) volessero intervenire direttamente sul campo. In questo caso, il maggiore timore riguarderebbe Mosca. Ankara, dati i propri rapporti con Tbilisi, non forzerebbe la mano nel chiedere “permesso di transito” alla Georgia. E data la situazione sul campo, a netto vantaggio dell’Azerbaigian, è meno probabile che abbia necessità di intervenire. Al contrario, l’Armenia in difficoltà necessita senz’altro degli aiuti di Mosca. E benché sia possibile che un ruolo attivo e incisivo dell’Iran risulti in ciò sufficiente, almeno in una prima fase, si è già parlato di una piccola stazione russa apparsa improvvisamente vicino a Berdzor/Lachin – anche se la natura di questa base non è stata confermata.
Se la Russia, in nome del CSTO, dovesse intervenire, potrebbe farlo esclusivamente passando per Tbilisi, a 40 km dalla quale, in seguito al conflitto del 2008, sono stazionate truppe russe. Se Mosca chiedesse a Tbilisi il permesso di transito, dunque, la Georgia si troverebbe di fronte a un drammatico dilemma: consentirle di raggiungere Yerevan senza scontri, e di conseguenza non solo piegarsi alla volontà del nemico, ma anche rischiare le furie di Ankara; negarle il permesso e rischiare che essa decida di transitare comunque – invadendo così la Georgia. In questo caso le furie di Ankara andrebbero verso Mosca, e nel timore di uno sbilanciamento degli esiti nel Nagorno-Karabakh, il rischio di uno scontro diretto fra Turchia e Russia sul territorio georgiano è da prendere in considerazione.
Nessuno vuole trovarsi in uno scenario di questo genere. Un nuovo Medio Oriente nel Caucaso è qualcosa che il mondo intero non può permettersi. É per questo che, se la speranza georgiana di una de-escalation del conflitto è un’ovvietà, per la comunità internazionale comprendere ciò che è davvero in ballo in Nagorno-Karabakh è dovere.
Claudia Palazzo