I termini del cessate il fuoco siglato il 9 novembre parlano chiaro: l’Azerbaigian ha vinto il conflitto e si riprende cinque province perdute nel 1994; la Russia dispiega duemila peacekeepers e ristabilisce la sua influenza nel Caucaso meridionale. Ma in Armenia monta la rabbia contro il governo e il “tradimento” di Mosca.
Sei settimane di guerra vera, tra due Stati sovrani, secondo modalità “tradizionali” che sembravano appartenere ormai al Novecento. Un fronte vicino, di immediata pertinenza geografica e diretto interesse strategico. Non poteva esistere test più adatto a verificare i piani e la prontezza di riflessi del Cremlino nei riguardi del suo fianco meridionale, il perennemente instabile Caucaso. E nella fattispecie, il Nagorno-Karabakh, oggetto di una contesa irriducibile tra Armenia e Azerbaigian.
Certo, nessuno a Mosca sperava in una simile evoluzione degli eventi: il congelamento del conflitto e la promozione del dialogo erano davvero visti come l’unica via per provare a risolvere uno dei più intricati nodi dell’eredità sovietica. Per di più, la guerra è (ri)esplosa in un momento non certo opportuno per la Russia: con la Bielorussia in fiamme, il Nord Stream 2 in bilico e il Kirghizistan in subbuglio post elettorale, Putin avrà percepito ancora una volta il ben noto senso di accerchiamento, ormai atavico per i russi. Ma dopo un certo periodo di osservazione degli eventi, ha provato a riprendere in mano i giochi, e in qualche modo c’è riuscito. Limitando gli inevitabili danni.
Le premesse erano tutt’altro che ottimali. L’Armenia, uno dei pochi alleati rimasti a Mosca tra le ex repubbliche sovietiche – e formalmente legata ad essa tramite il Trattato del CSTO – si trovava fin dagli esordi del nuovo conflitto in una posizione debole e difensiva. A gravare su di essa, soprattutto tre fattori: l’isolamento internazionale, l’inferiorità di uomini e mezzi e la difficoltà dei rifornimenti (acuita in seguito dal cambio di atteggiamento dell’Iran, unico confinante assieme alla Georgia relativamente amico).
Dall’altra parte della barricata l’Azerbaigian vantava un momento favorevole, per ragioni economiche e geopolitiche che abbiamo spiegato dettagliatamente in altra sede. La sproporzione di risorse si è palesata ben presto sul campo, accorciando i tempi di un conflitto violento sì, ma sostanzialmente a senso unico. Grazie in particolare al supporto della Turchia, gli azeri hanno sopraffatto le difese armene e riconquistato le più importanti province dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, ovvero il Nagorno-Karabakh propriamente detto.
In simili condizioni, una difesa a spada tratta dell’Armenia sarebbe stata impraticabile per la Russia. Teoricamente fattibile, ma col rischio concreto di una guerra generalizzata. Mosca avrebbe perso i suoi legami economici con l’Azerbaigian, e in cambio avrebbe potuto ottenere al massimo lo status quo. Per questo, i suoi strateghi hanno preferito valutare su altre basi gli eventi. In attesa dell’inevitabile, il Cremlino ha dato un supporto pressoché simbolico a Erevan (lo stabilimento di un piccolo avamposto militare al suo confine, giusto per mostrare agli azeri e ai turchi una linea rossa da non valicare, e poco più), puntando piuttosto su una sistemazione complessiva della regione.
I risultati si sono visti nella tarda serata del 9 novembre. A poche ore dal fortuito abbattimento di un elicottero Mi-24 russo da parte azera – evento che ha prodotto immediate scuse di Baku e blande reazioni russe, a dimostrazione della concretezza degli accordi in corso – si è raggiunto un patto per il cessate il fuoco tra le due parti in conflitto. O meglio, una resa quasi incondizionata dell’Armenia. Il premier Pashinyan, artefice per sua stessa ammissione di una “decisione estremamente dolorosa”, ha infatti dovuto cedere su tutti i fronti: ritirandosi dai territori finora controllati (Aghdam, Gazakh, Kelbajar e Laçın) entro il 1° dicembre, e ristabilendo dunque il Nagorno-Karabakh come un’enclave in territorio azero, ma anche assicurando a Baku il diritto di far transitare beni e persone verso la propria exclave del Naxçıvan.
L’accordo è stato raggiunto grazie alla decisiva mediazione di Mosca, che “in cambio” ha ottenuto il dispiegamento di 2000 propri peacekeepers per una durata minima di cinque anni (rinnovabili), allo scopo formale di tutelare il corridoio di Laçın. Obiettivo di vecchia data del Cremlino, già tentato alla conclusione della guerra del 1994. E consacrato dalla contemporanea esclusione di forze di interposizione turca, prospettiva che avrebbe costituito uno smacco non piccolo per le ambizioni regionali russe.
A sorpresa dunque, la Russia è riuscita a rientrare nei giochi dopo una gestione apparentemente passiva degli eventi, ottenendo il massimo che poteva sperare (e forse qualcosa di più) e soprattutto scongiurando una completa vittoria di Ankara e soci nel suo cortile di casa. Anzi, riaffermando la propria influenza persino a Baku, dove d’ora in poi si dovranno fare i conti con gli interessi russi (anche per la contestuale presenza della flotta russa del Caspio nei dintorni delle fonti energetiche e delle infrastrutture strategiche azere).
Il successo diplomatico di Putin ha tuttavia un prezzo non piccolo da pagare. In Armenia, il coinvolgimento russo (tanto scarso nella difesa dell’Artsakh, quanto attivo nelle trattative che hanno sancito la vittoria azera) è stato visto da molti come un tradimento, né più né meno. Basti leggere i messaggi lasciati sui social o lanciati nelle piazze dai moltissimi manifestanti infuriati per la resa. Per inciso, l’infausto epilogo della guerra ha appeso a un filo le sorti dell’esecutivo di Pashinyan, apertamente osteggiato dalla maggioranza delle forze politiche (e della popolazione, c’è da credere) che ne chiede le dimissioni. E se è vero che non è mai corso buon sangue tra il leader della rivoluzione di velluto del 2018 e Putin, diffidente verso modi e contenuti della sua ascesa politica, è anche vero che chiunque gli succederà non potrà ignorare la crescente ostilità del suo popolo verso la Russia, alleata solo sulla carta. Continuerà a farvi ricorso per palese assenza di alternative, specie di rango comparabile, ma senza alcun moto di fiducia.