La narrazione della storia novecentesca tra versione ufficiale e priorità politiche, con una vecchia regola sempre valida: certi argomenti è meglio evitarli.
“Il futuro è certo – è solamente il passato ad essere imprevedibile“. Ad affermarlo è un vecchio adagio di epoca sovietica, ispirato agli indefessi sforzi della dirigenza comunista di fare della narrazione storica un armonioso florilegio di avvenimenti gloriosi, funzionali a magnificare la patria – omettendo accortamente gli imbarazzi delle “zone grigie” e le connesse antinomie logico-propagandistiche. Ciò che conta non è il passato, insomma, bensì la legittimazione politica della leadership presente.
Sembrerebbe calarsi in questo solco la recente proposta di legge avanzata da Russia Unita, con il supporto dell’esecutivo federale guidato da Michail Mišustin. La bozza normativa prevede fino a cinque anni di detenzione per il reato di “riabilitazione del nazismo” e per la diffusione di falsità circa il ruolo sovietico nella Seconda guerra mondiale.
A ben guardare, non viene introdotta alcuna fattispecie di reato grandemente differente da quanto già previsto dal Codice penale della Federazione, al suo attuale art. 354, co. 1. Questo, fin dal 2014, commina infatti sanzioni fino a un massimo di 500.000 rubli (circa 5.450 euro) o la detenzione (o lavoro forzato) fino a tre anni per la commissione di uno tra i seguenti illeciti: 1) la negazione di quanto stabilito dal Tribunale di Norimberga nei processi ai criminali di guerra dei Paesi dell’Asse; 2) l’approvazione dei suddetti crimini; 3) la pubblica diffusione di informazioni “deliberatamente false” circa le attività dell’URSS durante la Seconda guerra mondiale – con un incremento della pena (fino a cinque anni di detenzione) nel caso il reo sia un personaggio pubblico o faccia uso dei mass media nella sua attività criminosa. L’ultimo comma si spinge ancora oltre, a mo’ di clausola generale: è infatti prevista una pena pecuniaria e/o la permanenza in colonia correttiva fino ad un anno per chi diffonda pubblicamente informazioni esprimenti “una chiara mancanza di rispetto” per i “giorni di gloria militare” ed i “memorabili momenti associati alla difesa della Patria”, oppure profani “i simboli della gloria militare russa”.
Niente di nuovo sotto il sole con il nuovo progetto di legge, quindi, se non l’innalzamento della pena massima edittale da tre a cinque anni di detenzione.
La prima firma in calce al nuovo disegno di legge è quella della deputata conservatrice Irina Jarovaja, vicepresidente della Duma con un passato alla Procura federale. Strenua sostenitrice del concetto di “democrazia sovrana” russa (teorizzato dall’ex ideologo del Cremlino Vladislav Surkov), la Jarovaja è conosciuta in patria soprattutto per l’eponima coppia di leggi federali del 2016 (la n. 374-FZ e la n. 375-FZ) – finalizzate al contrasto del terrorismo mediante l’aumento dei poteri delle forze dell’ordine, la limitazione del proselitismo religioso e l’obbligo per gli operatori TLC di consegnare i dati dei propri utenti a semplice richiesta delle autorità. Fu proprio Irina Jarovaja che, nel 2014, si rese promotrice del d.d.l. di criminalizzazione del revisionismo storico anti-sovietico, e che ha bissato quest’anno, sfruttando la cornice ideologica data dai “nuovi” principi costituzionali.
A proposito di questi ultimi, è quantomeno evocativo che, tra i numerosi ambiti innovati dalla riforma costituzionale della scorsa estate, ce ne sia stato uno passato relativamente in sordina nel già scarno dibattito pubblico avutosi sugli emendamenti russi in Occidente (incentrato per lo più sul reset dei mandati presidenziali). Ci si riferisce all’introduzione nella Costituzione federale di formule che riconoscono la Federazione Russa quale “successore legale dell’URSS“, ma soprattutto impongono di preservare “la verità storica” e vietano che venga sminuito “il significato dell’eroismo popolare nella difesa della Patria“.
Nonostante la previsione penale, nessun cittadino russo risulta finora essere stato incarcerato per falsificazione o revisionismo storico. Anche il caso più celebre, datato 2016 – relativo a Vladimir Luzgin, che aveva pubblicato un articolo sulla collaborazione nazi-sovietica sul suo profilo VK – si è risolto con la “sola” multa di 200.000 rubli (poco meno di 2.200 euro). Come sottolineato su Radio Svoboda da Gleb Boguš, professore di diritto penale internazionale alla Scuola superiore di economia di Mosca, “né le forze dell’ordine né i tribunali ritengono il crimine in questione come qualcosa di particolarmente deleterio“, ma “l’esistenza stessa della norma costituisce una minaccia potenziale [ed] induce le persone ad esprimersi in maniera più attenta“, sicché “[si] infonde nella coscienza collettiva l’idea che alcuni argomenti vadano evitati“.
Nella categoria degli “argomenti da evitare” rientra anzitutto il patto Molotov-von Ribbentrop, siglato dai ministri degli Esteri della Germania nazista e dell’Unione Sovietica il 23 agosto 1939 (seguito da un ulteriore accordo il 28 settembre successivo), e specialmente i protocolli segreti aggiuntivi con cui le due potenze disegnarono le rispettive sfere d’influenza in Europa orientale. Altri temi spinosi comprendono l’invasione sovietica della Polonia e le successive campagne in Finlandia (la c.d. Guerra d’inverno), Romania, Ungheria e Stati baltici; per finire con il massacro di circa 15.000 ufficiali polacchi a Katyn’ – che fu all’epoca dei fatti imputato ai nazisti, sebbene la storiografia contemporanea sia propensa ad attribuire la strage all’NKVD sovietico.
L’applicazione della norma è però intrinsecamente legata alla sua esegesi, il che pone il quesito della rilevanza giuridica della formula “informazioni deliberatamente false” in relazione ad una “scienza” generalmente opinabile come la storia. Come si fa, in sintesi, a valutare la consapevolezza di chi dice il falso? E come comportarsi con chi afferma falsità, ma è intimamente convinto delle stesse? Ancora: da cosa è determinata la falsità di un’informazione?
Un criterio utile è dato dalla decisione del tribunale regionale di Perm’ in relazione al caso Luzgin, ove è stata applicata una “presunzione di consapevolezza” nei confronti di chi, come Luzgin, abbia nozioni scolastiche di storia, pur non avendo letto gli atti di Norimberga (nel caso specifico, il reo è stato ritenuto sufficientemente istruito per aver seguito lezioni di storia sia alla scuola superiore sia all’università). Altro parametro risolutivo è stato fornito da Aleksandr Bastrykin, capo del Comitato investigativo federale, il quale ha affermato che l’attività di revisionismo storico consiste nell’attribuire pari responsabilità a nazisti ed Alleati per lo scoppio della guerra. Più che sottolineare la premeditazione degli scellerati disegni hitleriani, la ratio pare però essere quella di annacquare il dibattito storico tout court – per sorvolare sul capitolo dei progetti espansionistici staliniani. Il che richiama alla mente la riabilitazione del segretario georgiano operata in epoca brežneviana, sicché Stalin andava ricordato e tramandato ai posteri come il leader che vinse la “Grande Guerra Patriottica” (come è ricordata in Russia la Seconda guerra mondiale), e non già come il repressore biasimato da Chruščëv.
Fare i conti con il proprio passato è un’operazione assai complicata, che sovente si presta al semplicismo della categorizzazione tra “buoni” e “cattivi”: tertium non datur. Complicato lo è non solo per chi dalla guerra è uscito sconfitto – in primis Germania e Giappone, e poi l’Italia – ma altresì per chi l’ha vinta. L’esercizio di auto-analisi si rivela doppiamente ostico per il Cremlino, impegnato nell’edificazione di una storia nazionale che risalti in massimo grado l’eroismo e la tenacia sovietica nella lotta al nazifascismo, non di rado con una vena polemica per l’asserita scarsità o doppiogiochismo del contributo alleato occidentale. Imporre che la storia si riduca ad un apologetico cherry-picking di aspetti salienti, però, non finisce solo per darne una versione incompleta (e pedagogicamente poco utile), ma anche, paradossalmente, per non rendere il dovuto merito proprio a quegli eventi che, in positivo, ne hanno determinato il corso.