Nel corso della sua storia, Israele si è caratterizzato per essere un mosaico di culture, fedi e identità. All’interno dell’allargata famiglia ebraica si sono delineate differenti tribù, espressione della provenienza geografica, dell’interpretazione religiosa o delle vicissitudini storiche che la giovane nazione ha affrontato nel corso dei decenni posteriori al 1948, anno dell’indipendenza.
All’interno di questo mélange si inserisce la compagine degli ebrei di origine russa la quale, con all’incirca un milione di esponenti, costituisce il 10% della popolazione dello Stato ebraico. In chiave riduzionistica si raggruppa sotto la macrocategoria “ebrei russi” ogni ebreo giunto in Israele dalle repubbliche dall’ex Unione Sovietica e non esclusivamente dalla sola Federazione russa. Ebrei della Montagna dal Caucaso, ebrei orientali eredi della scomparsa cultura yiddish, mizrahi e bukhariani dall’Asia Centrale compongono questa amplia congregazione.
Giunti in Israele nel corso di diverse ondate emigratorie hanno modellato l’identità, la politica e il presente dello stato ebraico. L’Aliyah (emigrazione) di questo gruppo altamente qualificato ha influenzato vari ambiti della sfera socioeconomica dello Stato ebraico, come il rapido sviluppo delle industrie hi-tech e della difesa, dei sistemi educativi, nonché l’apertura nei confronti di investimenti e capitali esteri. Allo stesso tempo, il rapido afflusso di individui con background culturali e approcci culturali e religiosi differenti ha costituito (e continua in parte a costituire) una poderosa sfida per una società come quella israeliana, lacerata dalle più svariate controversie.
La storia dell’emigrazione
Tra il 1948 e il 2006 circa 1.269.012 ebrei russi hanno lasciato l’ex Unione Sovietica per approdare in Israele. Un numero imponente, spalmato in un ampio frangente temporale, stante l’ambiguità che i sovietici hanno applicato nei confronti dell’emigrazione ebraica. Tra il picco prossimo alla Seconda guerra mondiale e alla tragedia dell’Olocausto alle fasi di ermetica chiusura, gli ebrei sovietici hanno dovuto apertamente sfidare le istituzioni socialiste per conquistarsi il diritto ad espatriare. Nonostante la fondazione dello Stato ebraico stesse attraendo un sempre maggior numero di ebrei da tutto il mondo verso le sponde mediorientali, un’Unione Sovietica in via di ricostruzione postbellica non poteva consentire l’emorragia di una così economicamente influente minoranza. Dall’altro lato, si palesava la precisa volontà di non arrecare un vantaggio ad uno Stato schierato nel fronte contrapposto nel teatro della Guerra Fredda.
Malgrado sia stata la caduta dell’Unione Sovietica a consentire l’apertura dei confini e quindi l’inizio del flusso migratorio di massa, la formazione della minoranza di cultura russa all’interno dello stato ebraico è figlia di diverse ondate migratorie succedutesi dal 1967 in poi. Questa data coincide con la clamorosa vittoria di Israele nella Guerra dei Sei giorni che ha risvegliato un coinvolgimento verso Israele e fervore sionista. Frutto di questo rinnovato trasporto e della contrapposta resistenza sovietica è l’emergere del movimento dei Refuseniks (dal russo отказник – rifiuto), termine che fa riferimento agli ebrei a cui all’inizio degli anni ’70 veniva negato il permesso di emigrare e che si resero protagonisti di episodi dimostrativi a cui le autorità sovietiche risposero con l’abituale repressione. In risposta alla crescente pressione internazionale, i sovietici iniziarono a consentire agli ebrei di emigrare in numero limitato già a partire dal 1968, ufficialmente per motivi di “ricongiungimento familiare”. In totale, circa 291.000 ebrei sovietici ottennero visti di uscita tra il 1970 e il 1988.
Nel 1989, l’inizio della svolta, il segretario generale sovietico Mikhail Gorbachev decise di revocare le restrizioni all’emigrazione nell’alveo della perestrojka. Nello stesso anno emigrarono 71.000 ebrei sovietici, l’anno successivo 185.227 e 148.000 nel 1991. L’immigrazione in Israele è diminuita notevolmente da quel momento in poi, ma è rimasta stabile tra il 1992 e il 1995. Nel 1992, 65.093 immigrati sovietici sono arrivati in Israele, seguiti da 66.145 nel 1993, 68.079 nel 1994 e 64.848 nel 1995.
Da ebrei sovietici a israeliani
L’assorbimento e l’integrazione di un così alto numero di espatriati in un così breve intervallo temporale ha messo a dura prova la tenuta e le energie dello Stato ebraico, ma allo stesso tempo l’eredità di questo fenomeno ha contribuito a rafforzare ogni settore della sfera economica, demografica e arricchire culturalmente la quotidianità israeliana. Incuneato in un fazzoletto di terra mediorientale,circondato da potenziali nemici, lo Stato ebraico ha fatto della preservazione di una solida maggioranza ebraica un imperativo, dovendo garantirsi un primato inderogabile.
Dal punto di vista demografico, l’immissione di un così alto numero di immigrati ha temporaneamente placato le ansie dell’establishment restituendo margine di manovra. Indubbi anche i vantaggi che Gerusalemme ha ricavato dal punto di vista economico. Reduci da un sistema come quello sovietico, che tributava enorme importanza alla formazione e all’istruzione, tra le centinaia di migliaia di migranti v’erano un numero sproporzionato di professionisti (ingegneri, medici, professori, imprenditori…), un capitale umano indispensabile che ha contribuito a finalizzare la transizione economica da paese socialista a economia moderna. Giunti in Israele con un pesante bagaglio culturale, i russi hanno mantenuto forti legami con la madrepatria e la lingua di Tolstoj, inizialmente costruendo dei ghetti fisici, linguistici e psicologici che solo recentemente si stanno erodendo. Fare tappa ad Ashkelon, nei sobborghi di Haifa e Tel Aviv o nella colonia Cisgiordania di Ariel è un viaggio nei sapori, nelle tradizioni tra insegne in cirillico e consuetudini slave, mentre è possibile informarsi sull’attualità politica con appositi quotidiani o seguendo Canale 9, megafono della comunità.
La più importante criticità che spesso e volentieri pone gli ebrei russi al centro dell’agone risiede nell’ambivalente status di una cospicua (300.000) porzione di questa minoranza composta da immigrati non precisamente ebrei secondo la classificazione rabbinica; coniugi, figli o parenti di ebrei veri e propri. I più accesi oppositori sono i partiti nazionalisti e ultraortodossi, che ne denunciano lo status ambiguo potenzialmente pericoloso per l’identità dello Stato ebraico.
Gli ebrei russi e la politica
L’esperienza e il retaggio sovietico hanno modellato le consuetudini della minoranza nella sfera politica. Dopo un iniziale sostegno ai laburisti di Ehud Barak, il votodegli ebrei russi si è decisamente spostato su idee, piattaforme e tematiche securitarie afferenti all’universo della destra. Progressivamente il blocco elettorale degli immigrati russi è stato fondamentale nel successo elettorale del partito laburista nel 1992, nella vittoria del Likud di Benjamin Netanyahu nel 1996, nell’elezione del 2001 di Ariel Sharon così come nella vittoria del Likud nel 2003. Gli ebrei russi hanno inoltre contribuito a dare nuova linfa a forze politiche di matrice identitaria supportando lo sviluppo di partiti politici etnici.
Il refusenik Nathan Sharansky fondò nel 1995 Israel Ba-Aliya (שראל בעלייה ) partito rappresentativo delle istanze dei russi come strumento per migliorare l’integrazione e patrocinare i diritti della comunità con il chiaro intento di capitalizzare elettoralmente il peso demografico della stessa. Il partito è l’espressione della mobilitazione della minoranza russa, della frustrazione per le difficoltà nell’assorbimento oltre all’indignazione politica per gli accordi di Oslo. In seguito al tracollo dell’esperimento Sharansky, il testimone è stato raccolto dall’ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman (foto), fondatore del partito Ysrael Beitanu, che caldeggia interessi secolari, il sionismo revisionista, il populismo di destra e si oppone ad ogni possibile linea morbida contro il terrorismo.
Costituendo una compagine maggiormente orientata verso il laicismo e una blanda ottemperanza ai rigidi dettami dell’ebraismo, l’opinione pubblica degli ebrei russi ha decisamente contribuito alla recente fermezza del partito di Lieberman nel portare avanti una decisa contrapposizione verso l’influenza crescente che i partiti di riferimento della minoranza ultraortodossa detengono nell’attuale governo e nella società israeliana in via di mutamento. Una battaglia identitaria per l’anima del Paese.
“L’Aliyah di Putin”
Seppur numericamente imponente, l’enorme processo migratorio non si è esaurito essendoci del potenziale nel bacino demografico dell’ebraismo orientale. La Russia e l’Ucraina (e in minor parte Bielorussia) ospitano ampie minoranze ebraiche. Nel primo caso la popolazione ebraica è compresa tra un minimo di 170.000 a un numero più che doppio. La difficoltà nel delinearne l’esatto numero risiede nella controversa identificazione dal punto di vista della legge ebraica. Dal 2000 in poi, una serie di circostanze hanno contribuito ad incrementare fortemente il numero di ebrei che intraprendono la scelta di trasferirsi nello Stato ebraico. Più della metà degli immigrati arrivati nell’ultimo decennio (130.000) è giunto infatti dall’ex Unione Sovietica. L’anno con il maggior numero di immigrati è stato, secondo le statistiche pubblicate dall’Agenzia ebraica, il 2019, quando sono arrivati circa 34.000 immigrati.
L'”Aliyah di Putin”, come è stato mediaticamente definita in quanto coincidente con il frangente temporale diaffermazione dell’attuale presidente russo, risponde a necessità politiche o meramente pratiche, essendosi affievolito l’ethos sionista che ha contraddistinto l’epopea dei refusenik. A preoccupare gli ebrei è non solo la stagnazione dell’economia indebolita da carenze strutturali e dal persistere delle sanzioni, ma anche il progressivo rafforzamento del sistema di controllo del Cremlino nei confronti di dissidenti e esponenti della società civile non allineati. In ultimo, nonostante la promozione di un identità multiculturale della Russia, lo spettro politico e dell’opinione pubblica ospita una miriade di organizzazioni, partiti, movimenti più o meno manifestamente antisemiti.
Ad ovest del confine, gli ebrei ucraini in sempre maggiore numero fuggono non solo dagli strascichi del conflitto nel Donbass, ma anche da un Paese che sta vivendo una fase di graduale impennata del nazionalismo e dovesi attenua la speranza di cambiamenti rivoluzionari che l’attuale amministrazione Zelensky ha promesso, ma fatica a portare avanti.
Gli ebrei russi e il Cremlino
La forza demografica della compagine ebraica russa non poteva essere ignorata dai calcoli politici del Cremlino e dalla nuova assertività della Russia in Medio Oriente. Putin non ha mai mancato di garantire il proprio supporto verso quelli che considera come nient’altro che concittadini, componente essenziale di quel “Russkij Mir” (mondo russo) che lega in una comune spirituale tutti i popoli portatori di identità e cultura russa nel mondo e tassello della strategia di soft power del Cremlino. La preservazione, la vitalità e il futuro della “russkaja ulica” (come viene usualmente definito l’universo degli ebrei russi in Israele) sono tra i principali motivi che hanno contribuito a cementare la convergenza tra Mosca e Gerusalemme con i consueti dividendi diplomatici.
Geopoliticamente parlando, da diversi anni la Russia è sempre più una presenza indispensabile nel quadrante geopolitico mediorientale, potendo godere dell’ immagine, pazientemente costruita, di potenza imparziale e dall’afflato multilaterale. L’attuale empatia, pur non mancando episodi controversi e divergenze, ha decisamente accantonato il passato sovietico in cui il piccolo Paese mediorientale e la potenza socialista si sono ritrovati da un lato e dall’altro della barricata.
Senza ombra di dubbio a contribuire al miglioramento dell’immagine della Russia nel Paese è la statura e la leadership di Putin stesso, che conosce in Israele tassi di popolarità molto alti in quanto, soprattutto tra le più anziane generazioni, permane l’idea di sovietica memoria della necessità di un leader forte e carismatico in contesti di criticità. Da non sottovalutare è l’espressa volontà del Presidente russo di presentarsi come un sincero sostenitore della minoranza ebraica e le iniziative patrocinate che ha permesso alle comunità ebraiche russe di assistere a una rinascita senza precedenti della vita religiosa e comunitaria.