Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del revisionismo: a suggerirlo non sono solo le molteplici statue abbattute, riflesso di un malessere identitario diffuso, ma anche atti fortemente simbolici come la Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019, che ha in sostanza condannato in pari misura le azioni della Germania nazista e dell’Unione Sovietica di Stalin.
Da questa premessa, ovvero dalla sentita necessità di difendere una verità non più scontata, nasce l’opera di Vladimir Medinskij, “Miti e Contromiti – L’Urss nella Seconda guerra mondiale” (Sandro Teti Editore, 2020, 342 pp.): un viaggio nei meandri più controversi di quella che per i sovietici fu la “Grande guerra patriottica”. E che per i russi, loro diretti eredi, riveste ancora oggi un’importanza eccezionale, geopolitica e non certo solo storiografica. Lo dimostra, tra le altre cose, l’interessamento al dibattito in corso del presidente Putin in persona, autore pochi mesi fa di un lungo e articolato intervento sulla rivista americana The National Interest.
Medinskij, che di Putin è consigliere per la memoria storica, non è certamente da meno, e in quest’opera mette in fila una lunga rassegna di miti legati al coinvolgimento dell’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale. La disamina è minuziosa, e parte da ben prima dell’attacco tedesco all’Urss del giugno 1941, ma anche dell’inizio ufficiale della guerra mondiale del settembre di due anni prima. Vengono prima esaminate l’ascesa di Hitler e la sua presunta affinità con Stalin, nonché tutte le tappe diplomatiche e militari di avvicinamento al conflitto, dalla Spagna all’Estremo Oriente, passando per la guerra d’inverno in Finlandia e la spartizione della Cecoslovacchia.
Evento centrale, quest’ultimo, non solo per spiegare le radici della guerra ma anche per denunciarne le corresponsabilità occidentali. Ciò che in genere viene studiato come appeasement, o come un tentativo estremo franco-inglese di salvare la situazione in Europa, viene riletto nella sua drammaticità – anche nell’opportunismo di Varsavia e Budapest, che approfittano della contingenza per strappare pezzetti di territorio al vicino soccombente. E l’Unione Sovietica? Esclusa dal Patto di Monaco, troverà altre vie per accordarsi coi tedeschi, ma quando ormai la guerra sarà imminente e inevitabile. Il famigerato accordo tra Molotov e Ribbentrop, visto da Mosca, è una pezza contro lo strapotere di Berlino, più che un modo per allungare le mani sulla Polonia, i Baltici e altre parti del continente europeo.
I sovietici sono impreparati alla guerra, ma non alla sua eventualità. Per questo prendono tempo, trattano coi finlandesi (e poi gli dichiarano guerra, pur di allontanare il confine da Leningrado), mostrano ai giapponesi, a Khalkhin Gol, l’inopportunità di un conflitto su due fronti. Insomma, rileva Medinskij, di certo non giunge così inaspettata l’operazione Barbarossa, nonostante il grave disorientamento delle prime settimane di guerra. E se Stalin, nell’immediatezza della notizia, rinuncia a parlare al Paese, non lo fa per la prostrazione del momento (come suggerito più tardi da Chruščëv), bensì per non allarmare ulteriormente il popolo, data la rarità dei suoi interventi pubblici.
L’ideologia nazista manifesta chiaramente, in quegli anni, il suo giudizio per i popoli dell’Est, Untermenschen (sub-umani). Per il comandante delle SS Himmler, “una commistione di razze e popoli, i cui nomi sono impronunciabili e la cui essenza fisica è tale che l’unica cosa che ci si può fare è sparargli, senza nessuna pietà e misericordia” (p. 83). Tratti naturalmente aggravati dall’identificazione dei sovietici nel comunismo. L’odio razziale trasforma la guerra in uno sterminio di massa, a livelli che non saranno mai visti in nessun altro fronte europeo.
E anche al di là dei megafoni della propaganda, basta guardare i numeri complessivi delle vittime, o di quelle tra i prigionieri di guerra, per comprendere la disparità di trattamento riservata dai nazisti ai cittadini sovietici e a quelli dell’Europa settentrionale e occidentale occupata. La Grande guerra patriottica è dunque prima di tutto una lotta accanita per la sopravvivenza, ma anche per l’identità e la dignità di un popolo – quello sovietico, in tutte le sue nazionalità – che non si piega al giogo nazista. Il prezzo da pagare sarà altissimo, 26,6 milioni di vite secondo le ultime stime: di gran lunga la cifra più alta in Europa e nel mondo.
Solo prendendo consapevolezza di tali entità, forse, l’Occidente può comprendere la ragione per cui in Russia certe commemorazioni sono ancora oggi così sentite. Non si tratta di mere nostalgie imperiali, bensì di un bisogno – privato quanto pubblico – di tenere viva la memoria del sacrificio. Lo stesso bisogno che porta Medinskij a scrivere questo libro, al di là del suo evidente ruolo politico nell’attuale Federazione.
Suoi interlocutori, ad ogni modo, non sono soltanto i lettori occidentali. Anzi, l’autore sembra porre una maggiore attenzione ai cittadini del proprio Paese, sempre più spesso confusi dall’emergere di nuove teorie e interpretazioni sulla Grande guerra patriottica. Frutto della libertà editoriale degli ultimi trent’anni, ma pure colpa della (paradossalmente) scarsa pubblicistica sovietica sulla guerra, che ha sicuramente influito sulla diffusione di miti privi di sostanza storica. Naturalmente, anche la Guerra fredda ha fatto la sua parte: cessati i tributi dei contemporanei, è iniziata una lunga opera di smitizzazione del contributo sovietico alla Vittoria, grazie anche alla forte presenza della memorialistica militare tedesca.
Certo, nell’impazienza di condannare (giustamente) il doppiopesismo imperante, a volte l’autore non riesce a esprimere un giudizio politico coerente. Se è vero, ad esempio, che a Monaco nel ’38 le potenze occidentali e la Polonia non si comportano con Hitler in modo diverso o migliore da Molotov e Stalin un anno dopo, tuttavia non è chiaro se entrambi gli accordi vadano condannati o al contrario giustificati in ogni caso per ragioni di realpolitik. Manca, inoltre, l’analisi di alcuni episodi chiave della guerra, almeno in termini di “mitologia” e memoria storica al centro di dispute propagandistiche. La Polonia, forse il più acerrimo nemico della retorica salvifica di Mosca – e dunque, principale sponsor dell’equiparazione nazicomunista compiuta a Strasburgo – reclama ancora oggi giustizia per i fatti di Katyn e per il mancato intervento sovietico nell’insurrezione di Varsavia del 1944: una spiegazione o contronarrazione russa di eventi così importanti avrebbe dato maggiore completezza al lavoro – anche e soprattutto dinnanzi a un’eventuale ammissione di responsabilità.
L’opera di Medinskij, ad ogni modo, vuole essere inclusiva. “La Russia, come maggiore componente dell’Urss e sua principale erede, può e deve rivendicare tale trionfo. Ciò non implica una visione escludente, al contrario, Mosca è lieta di condividere con le altre repubbliche ex sovietiche la grande vittoria” (p. 299): e qui basti guardare la partecipazione alla parata per i 75 anni della Vittoria, tenutasi eccezionalmente il 24 giugno scorso. “Allo stesso tempo la Federazione Russa condanna con forza i tentativi, sempre più frequenti, di alcune ex repubbliche di riabilitare i complici dei nazisti” (ibidem). Il riferimento è certamente rivolto ai baltici e agli ucraini, ma si potrebbe estendere a tutti coloro che in Europa continuano a gettare ombre sul significato complessivo della Grande guerra patriottica.
Il libro aiuta dunque a orientarsi laddove la narrazione storiografica occidentale risulta carente, o peggio ha abdicato a un senso comune sempre più ignaro del ruolo sovietico nella guerra (cresce, anno per anno, la percezione relativa dello sbarco in Normandia come evento risolutivo del conflitto, a dispetto di Stalingrado). In ciò è senz’altro un’opera utile, anche grazie a una corposa bibliografia che rimanda a testi di difficile reperibilità nel nostro Paese.
Miti e Contromiti – L’Urss nella Seconda guerra mondiale. Sandro Teti Editore, 2020, 342 pp.