La clamorosa sconfitta nella breve guerra con l’Azerbaijan ha profondamente destabilizzato l’Armenia, costretta ad accettare un accordo di pace difficile da digerire. Le tensioni degli ultimi mesi sembrano aver disintegrato il consenso di Pashinyan, reo di aver condotto il Paese alla capitolazione.
L’8 novembre 2020, a soli 43 giorni dall’inizio delle ostilità in Nagorno-Karabakh, le forze armate azere hanno annunciato la conquista della città di Shusha. Ciò ha posto una seria ipoteca sulla vittoria finale nel conflitto che le vedeva contrapposte all’Armenia. In effetti, l’insediamento si trova in una posizione strategicamente vantaggiosa per puntare all’assoggettamento dell’intera enclave. Le truppe armene sono state dunque costrette alla capitolazione, mentre in Azerbaijan Ilham Aliyev si apprestava a festeggiare in pompa magna il successo ottenuto nella guerra. L’abbattimento di un Mi-24 dell’esercito russo, causato per errore dalle forze armate azere il 9 novembre, parrebbe avere svolto un ruolo fondamentale nel porre termine all’offensiva di Baku. Del resto, un eventuale intervento di Mosca in supporto agli alleati di Erevan, e dunque in favore di Stepanakert, avrebbe sicuramente costretto le truppe azere alla ritirata. Per non parlare, poi, del rischio di un’escalation militare tra Russia e Turchia, considerando l’appoggio di Ankara nei confronti dei lontani cugini di Baku.
Ad ogni modo, il 10 novembre il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan, il Presidente azero Ilham Aliyev ed il Presidente russo Vladimir Putin hanno annunciato la firma di un accordo per il cessate il fuoco nel Nagorno-Karabakh. In base a quanto previsto dal trattato, 1960 peacekeepers provenienti dalla Federazione avrebbero dovuto essere dislocati sul territorio della regione contesa. Il loro compito sarebbe stato quello di monitorare il rispetto dei termini dell’accordo. Le forze azere avrebbero mantenuto il controllo dei territori conquistati nel corso delle sei settimane di combattimenti, mentre gli armeni avrebbero dovuto operare un graduale ma rapido ritiro dalle province immediatamente adiacenti. Per rilanciare la fragile economia della regione, profondamente danneggiata dopo il secondo devastante conflitto nel giro di trent’anni, sarebbero state ripristinate le vie di comunicazione. Al fine di consentire una ripresa dei rapporti commerciali, inoltre, sarebbero stati istituiti due corridoi. Il primo avrebbe dovuto collegare l’Azerbaijan con l’exclave del Naxchivan passando attraverso le regioni sotto il controllo delle forze nemiche. Il secondo, noto come corridoio di Lachin, avrebbe dovuto, per converso, consentire il collegamento tra i possedimenti armeni in Nagorno-Karabakh ed il territorio dell’Armenia stessa. La forza di interposizione russa avrebbe dovuto garantire la sicurezza di entrambe le vie di comunicazione. In ultimo, in base a quanto stabilito durante i negoziati di pace, i rifugiati, compresi quelli che avevano abbandonato il Nagorno-Karabakh in occasione del conflitto del 1988-1994, avrebbero potuto fare ritorno alle proprie abitazioni.
Lo stesso Nikol Pashinyan ha definito l’accordo per il cessate il fuoco come incredibilmente doloroso, sottolineando quanto fosse stato difficile accettarlo. A quanto pare, anche il suo popolo la pensava esattamente allo stesso modo. Una volta divenuti noti i termini del trattato, infatti, in tutta l’Armenia si erano levate voci di protesta che ben presto si erano inasprite al punto da condurre la popolazione a manifestare nelle piazze, in barba alla pandemia globale che non ha certo risparmiato il piccolo Paese caucasico. La folla aveva circondato i palazzi del potere di Erevan domandando il rigetto dell’accordo. Nei giorni successivi, il parlamento, riunitosi in sessione straordinaria, aveva cercato di costringere il Primo Ministro alle dimissioni fallendo per il mancato raggiungimento del quorum necessario. Pashinyan poteva infatti contare su una larga maggioranza, visto che 88 seggi su 132 sono occupati dai suoi sostenitori.
Mentre a Baku si festeggiava la vittoria con un’imponente parata militare, a Erevan le persone chiedevano a gran voce la testa di Pashinyan. Nei giorni immediatamente successivi alla firma del trattato, 17 partiti di opposizione si erano riuniti per nominare l’ex premier Manukyan come potenziale traghettatore del governo in attesa della calendarizzazione di nuove elezioni. Sebbene tale mossa non avesse alcun valore legale, era piuttosto indicativa dell’umore della popolazione. Pashinyan, dal canto suo, non aveva esitato ad assumersi la piena responsabilità per la sconfitta nel conflitto con l’Azerbaijan, ma si era al contempo rifiutato di dimettersi dal proprio incarico. Egli si era giustificato affermando che se non avesse accettato l’accordo propostogli, all’Armenia non sarebbe rimasto più nulla per cui lottare in Nagorno-Karabakh, considerando la superiorità dimostrata dagli avversari. Egli aveva in tal modo salvato migliaia di vite. Inoltre, Pashinyan aveva sottolineato la necessità di rimanere al potere per consentire un ritorno della stabilità interna al Paese.
Le parole del Primo Ministro non sembravano aver sortito l’effetto sperato e le manifestazioni non si erano arrestate, prendendo anzi vigore con il passare del tempo. Inoltre, le autorità del governo armeno avevano avviato una campagna di repressione del dissenso arrivando ad arrestare dieci politici dell’opposizione, accusati di aver fomentato la rabbia dei cittadini. Il leader del partito “Armenia Prospera”, Naira Zograbyan li aveva definiti prigionieri politici, esprimendo una certa preoccupazione rispetto alla possibilità che il Paese potesse intraprendere una deriva autoritaria.
Il 5 dicembre 2020, a quasi un mese dalla fine della guerra, più di 20.000 persone avevano marciato in direzione della residenza di Pashinyan, chiedendone ancora una volta le dimissioni. In quel frangente, Artur Vanetsyan, leader del partito nazionalista “Patria” ed ex direttore dei servizi di sicurezza, aveva affermato che il governo fosse occupato da un cadavere politico. Del resto, proprio la sua formazione sembrerebbe essere quella che ha guadagnato i maggiori consensi in seguito agli eventi del Nagorno-Karabakh. Nel corso delle proteste, ai manifestanti si erano aggiunti i fedeli della Chiesa Apostolica Armena, arrabbiati con il Primo Ministro per aver consentito all’Azerbaijan di occupare siti di fondamentale importanza spirituale per il loro credo. Con il passare del tempo anche numerosi esponenti delle forze armate e alcuni collaboratori del Primo Ministro avevano cominciato a prendere le distanze dal governo.
Nelle ultime due settimane del 2020, poi, la situazione sembrava addirittura essere peggiorata. Il 19 dicembre Pashinyan aveva indetto un periodo di tre giorni di lutto nazionale per commemorare i caduti, organizzando una marcia che avrebbe dovuto concludersi con la visita al cimitero militare di Yerablur. Una folla composta dai parenti dei soldati dispersi o caduti nel corso del conflitto con l’Azerbaijan aveva cercato di impedire al Primo Ministro di accedere al cimitero e si erano verificati duri scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Similmente, Pashinyan era stato costretto ad interrompere prematuramente il proprio viaggio nelle regioni ai confini con l’Azerbaijan, ove si era recato per rassicurare la popolazione locale rispetto alla permanenza degli insediamenti della zona sotto la sovranità di Erevan. L’accoglienza non era stata delle migliori ed ancora una volta si erano registrati incidenti con la polizia.
Questi episodi avevano portato il Primo Ministro armeno a dichiarare che, dopo essersi incontrato con i rappresentanti dell’opposizione parlamentare e di quella extraparlamentare, avrebbe indetto la data delle nuove elezioni.
L’11 gennaio, Pashinyan si era poi recato a Mosca per incontrarsi con il rivale Ilham Aliyev e con Putin per discutere del futuro del Nagorno-Karabakh. Nel corso del summit i tre uomini si erano accordati per istituire un Gruppo di Lavoro che avrebbe dovuto occuparsi di alcune spinose questioni ancora da risolvere, come quella relativa ai prigionieri di guerra, e della ricostruzione della regione.
A livello economico, sono ingenti le perdite accusate dall’Artsakh e dall’Armenia a causa del conflitto. Le passività sono dovute principalmente ai mancati introiti fiscali determinati dalle forzate cessioni territoriali in favore dell’Azerbaijan. Alcune importanti imprese attive nel settore minerario (come la russa GeoPro Mining Gold), in particolare, si sono ritrovate improvvisamente sotto la sovranità di Baku a seguito del mutamento dei confini. Altre attività, invece, sono state costrette a chiudere a causa del conflitto. Come se non bastasse, Erevan si è scoperta decisamente isolata a livello internazionale. Il Ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif si è recentemente recato in visita nel Caucaso meridionale e durante il suo soggiorno in Azerbaijan si è congratulato con Aliyev per la vittoria. Teheran aveva sempre mantenuto una posizione neutrale ed era uno dei pochi Paesi della regione a vantare buoni rapporti con Erevan. Sebbene le relazioni con l’Iran non siano in nessun modo compromesse, il governo armeno non ha preso affatto bene le parole di Zarif che sono state interpretate come una sorta di sostegno allo sforzo bellico azero.
La traiettoria politica di Pashinyan sembra dunque aver assunto la forma di una parabola e ci troviamo certamente nella sua fase calante. Quello che nel 2018 era sembrato un piccolo miracolo veramente democratico nel cuore del Caucaso meridionale parrebbe essere giunto al capolinea. Il tremendo conflitto in Nagorno-Karabakh ha messo a dura prova il governo di Erevan, prima sconfitto sul campo e poi costretto ad accettare un accordo di pace considerato umiliante. Le proteste popolari, il calo dei consensi, i problemi dell’economia e il percepito isolamento internazionale sembrano condannare senza appello l’attuale Primo Ministro ad una vita lontana dai riflettori della politica, almeno nel medio termine.